Guida per il Pd
Rischi in agguato

Con tutto quel che succede in Italia, vendita di fuffa tossica e incasso dello spread, il congresso del Pd può apparire, a prima vista, cosa di second’ordine. Calenda, dem di nuovo conio e anomalo, teme che il percorso si trasformi in una resa dei conti e che piuttosto il partito dovrebbe fare opposizione come si deve. Tuttavia, mobilitare in due fasi migliaia di iscritti e di elettori non è un esercizio di poco conto per un esame di coscienza: il Pd è un paziente che ancora non s’è ripreso dalla botta storica del 4 marzo, ma è pur sempre il principale partito d’opposizione e il suo stato di salute non può lasciare indifferenti gli equilibri di sistema. In teoria le primarie del 3 marzo dovrebbero restituire al partito una guida autorevole che non sia ghigliottinata il giorno dopo e una linea che non venga contestata all’indomani.

Fare in sostanza quel che finora non è avvenuto. Oltre a ridefinire il modello di un partito che intendeva essere maggioritario e che si deve ricollocare nel ritorno del proporzionale e nella stagione dei nazionalpopulismi che promette di non essere una malattia passeggera. Un’impresa insieme disperata e necessaria. Disperata, perché, al di là di ogni burrascosa evidenza, i sondaggi Ipsos dicono che la Lega continua a volare, benché Nando Pagnoncelli inviti a riflettere sul lato oscuro: l’aumento di indecisi e astensionisti, il 36,2%, cioè 3,2 milioni di elettori in più rispetto alle Politiche. Necessaria, per la qualità della democrazia e nell’interesse collettivo per attutire i tonfi di un Paese malmesso e osservato a vista.

Il Pd arriva all’appuntamento un po’ in ritardo, dato che la nuova classe dirigente avrà solo meno di tre mesi per organizzarsi in vista delle Europee, il tornante che deciderà i destini dell’Ue e le stesse prospettive delle culture europeiste. Le primarie si lasciano alle spalle esperienze di governo, comunque collettive e dalle quali diventa un po’ sbrigativo chiamarsi fuori, dando piuttosto l’impressione di non credere in quel che s’è fatto, quasi un cedimento gregario ai nuovi inquilini del potere. C’è chi insiste sull’andare oltre il Pd, suggestione quasi liberatoria, ma non si capisce con precisione cosa significhi.

In agguato ci sono alcuni pericoli, fra risentimenti e cicatrici non rimarginate. Il primo è trasformare le primarie in un referendum su Renzi, gettando il bambino con l’acqua sporca. Non tutto è chiarissimo in questo bipolarismo. Lo stesso Renzi dice di non essere della partita, ma non può non esserci, e intanto ha costruito i suoi Comitati civici. Un partito frammentato: la pattuglia di partenza sarà filtrata nel corso delle assemblee dei circoli, il primo step, per arrivare alle primarie vere e proprie degli elettori dove usciranno il segretario e i delegati dell’assemblea nazionale. Per vincere occorre il 51% dei voti al candidato e alla lista collegata e alla fine la partita sarà a tre: il governatore del Lazio Zingaretti, l’ex ministro dell’Interno Minniti e il segretario uscente Martina che si pone in un’area di mediazione. La distinzione più netta è fra i primi due. Zingaretti, che ha dalla sua Gentiloni e Franceschini, marca la discontinuità dalla gestione di questi anni e intende pescare a sinistra. Minniti, che ha con sé i più importanti sindaci del partito e quasi tutto il secondo cerchio renziano, frequenta un territorio fra continuità e discontinuità. Una parte di questo mondo diversamente renziano (Delrio, Orfini) è schierato con Martina. Il governatore del Lazio è dato in vantaggio dai sondaggi, mentre l’ex titolare del Viminale ha un profilo tutto suo e il modo pragmatico di gestione dei flussi migratori lo rende il più competitivo rispetto a Salvini. Ma quello di Minniti è anche il compito più difficile, in equilibrio su un confine delicato: non può staccarsi troppo dal retroterra renziano e nemmeno può ricevere un abbraccio manifesto. Mettiamola così: essere e al contempo non essere. In tutto questo non si può escludere la peggiore delle ipotesi: che nessuno dei tre raggiunga quota 51%. A quel punto il segretario verrebbe scelto dall’assemblea nazionale, nascendo così come un’anatra zoppa, l’esito di spartizioni correntizie e non più legittimato dal basso.

L’altra questione riguarda il tipo di opposizione non solo a livello parlamentare, bensì nel Paese. Da Torino a Roma abbiamo visto manifestazioni spontanee e i produttori del Nord, che hanno fatto le fortune della Lega, sono in sofferenza sui temi per loro naturali, come lavoro e infrastrutture. Come affiancare questi movimenti per tradurli in qualcosa di più resta un orizzonte per i dem, non ancora ritenuti un’alternativa compiuta a questo governo. Ammesso e non concesso che questo malessere sociale di varia natura vada tutto in questa stessa direzione e sia disponibile a farsi rappresentare in chiave politica.

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