La prova più difficile
attende i 5 Stelle

Un partito che nasce, cresce, prospera all’opposizione non ha pochi problemi a riciclarsi poi come forza di governo. Non si tratta solo della trita questione che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. È che, passando dal dire al fare, rischia di perdere per strada il suo popolo, uso a dire e non a fare. In gioco c’è insomma il grande bacino dell’elettorato di protesta che si sente tradito quando il suo partito è costretto a rispettare i vincoli delle compatibilità. Una prova ancora più ardua, quasi temeraria, aspetta il partito che sia nato, cresciuto, e abbia prosperato come forza anti-sistema. È difficile conciliare il diavolo e l’acqua santa; la crociata alla Casta e la salita al Colle del Quirinale; la pretesa di governare a dispetto di tutti e la richiesta di un appoggio disinteressato da quegli stessi che fino al giorno prima siano stati additati al pubblico ludibrio come voltagabbana, campioni dell’inciucio; la generosa promessa di pensioni e redditi di cittadinanza a cascata e il vincolo di spesa imposto da un debito pubblico stellare. Non c’è bisogno di dire che stiamo parlando del M5S. C’è bisogno invece di capire piuttosto se i suoi dirigenti (una parola bandita dal dizionario grillino ma, ciò nonostante, una realtà operante) si stiano preparando adeguatamente alla prova che li aspetta e quali siano i termini della sfida.

I precedenti offerti dalla storia non sono incoraggianti. Due per tutti. Il Pci e il Fronte dell’Uomo qualunque. Il primo, storica forza d’opposizione e, per il suo anticapitalismo, anche forza anti-sistema. Il secondo, campione assoluto dell’antipolitica e, in quanto tale, indubitabilmente anti-sistema.

Il partito di Berlinguer si preparò a dovere a compiere il gran passo (il sostegno al governo Andreotti nel 1976), eppure dopo soli tre anni fu costretto a ripiegare all’opposizione.

Addirittura rovinosa è stata la traiettoria percorsa dal movimento di Giannini. Balzato in soli due anni (1944-1946) a percentuali di due cifre almeno nel Mezzogiorno, al primo sconfinamento nell’area di governo (autunno del 1946) si è sciolto come neve al sole.

Bisogna riconoscere che il M5s sta mostrando di essere ben più avveduto del suo precursore, l’Uq. Non può, però, permettersi di sottovalutare la difficoltà del percorso che l’attende, ora che si è candidato alla guida del Paese. Il cambiamento cui è chiamato non è di facciata, ma di sostanza. Riguarda sia il metodo che il programma di governo. La democrazia dell’«uno vale uno», delle delibere con consultazioni a ripetizione del suo popolo web, del mandato imperativo per gli eletti, non è solo macchinoso quant’altri mai. Cozza anche contro il dettato costituzionale (art. 67) che impone al parlamentare di «rappresentare la nazione», e non il suo partito. Di più: rompe con il canone universalmente seguito in Occidente (da che democrazia ci regge) della sua forma rappresentativa, cioè «indiretta».

Passando ai contenuti, non c’è chi non veda l’enorme discrasia tra le promesse elargite a piene mani e la loro realizzabilità. Reddito di cittadinanza (15-20 miliardi), abolizione legge Fornero (140 miliardi in dieci anni), nuovi bonus aprirebbero una vera voragine nel bilancio dello Stato, visto che non si prevedono oneri fiscali aggiuntivi. Anzi, non si escludono corpose riduzioni d’imposta a famiglie e piccole imprese. Non ci sarebbe bisogno, se si dovesse dar corso a propositi del genere, di indire un referendum sull’euro per decidere se restare o meno in Europa. Ci penserebbero i mercati a cacciarci.

Il candidato premier Di Maio, a dire ilvero, ha intrapreso una faticosa correzione di tiro. Ha buttato alle ortiche, ad esempio, gli anatemi contro la finanza mondialista di Bilderberg ed è andato, ossequioso, a far visita al Forum Ambrosetti. Ha messo in mora il bando sulle alleanze promettendo che «governeremo con chi ci sta» (scordandosi forse che in politica non ci sono portatori d’acqua gratis). Ha allontanato lo scenario di un’uscita dall’euro (possiamo chiamarla rovinosa per un paese esportatore come l’Italia?) chiarendo che il referendum è solo «l’extrema ratio». Salvo poi tornare, però, a minacciare il suo sostegno all’Italexit.

Al di là del merito dei singoli punti del loro programma, i Cinquestelle farebbero bene a considerare che la primissima qualità di un capo di governo è la sua credibilità, soprattutto in tempi in cui basta un’ombra sulla sua testa per scatenare incontenibili reazioni di rigetto (ci ricordiamo il 2011 con lo spread a 500 punti e l’incubo del default?). Con le oscillazioni e le contraddizioni in cui continuano a incappare è proprio la credibilità che mettono in discussione.

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