Il crollo dei muri
L’Europa smarrita

Ma davvero i Paesi dell’Est Europa sono convinti di poter fermare l’incessante flusso di migranti ai propri confini con i reticolati? Se la risposta è affermativa, è dettata da una pericolosa ingenuità. Se è negativa, l’azione è almeno frutto di una comprensibile ipocrisia tendente a rasserenare i propri cittadini attraverso interventi muscolari. La realtà però prima o poi presenta sempre il conto. E infatti a Idomeni, il villaggio greco ai confini con la Macedonia, non si placano i tentativi dei migranti di abbattere le barriere che ostacolano la prosecuzione del loro viaggio verso il cuore dell’Europa.

Su quella recinzione in un luogo remoto balzato agli onori (o ai disonori...) delle cronache internazionali, fanno pressione 10 mila migranti, destinati a crescere di giorno in giorno, malamente «accolti» in campi profughi traboccanti di umanità e privi di acqua e cibo per tutti. Su quei reticolati si è abbattuta la forza vitale del popolo dei fuggiaschi che non ha più niente da perdere - nei Paesi d’origine hanno lasciato il vuoto delle guerre e della miseria più nera - e tutto da guadagnare, mosso dalla fame e dalla speranza. Certezze che si contrappongono alla freddezza ragionieristica dell’Europa che conta, dove la politica è ormai ridotta a tecnica e alla soddisfazione del consenso pubblico.

La nostra sconfitta è in questo discrimine: da una parte migranti animati da sete di vita e da ideali robusti (ricostruirsi un’esistenza pacifica), da una visione globale del mondo e dei suoi destini, dall’altra una leadership di governanti (con eccezioni, ovviamente) smarriti nelle secche del cinismo e del tornaconto nazionale di breve respiro. Così l’Europa ha perso e si è persa. Il villaggio di Igumeni può essere assurto a simbolo di questa clamorosa debacle. Perché qualsiasi politica, anche la più dura nei confronti dei migranti, oggi non può prescindere da una visione storica e internazionale dei problemi. Per tanto tempo abbiamo fatto spallucce verso ciò che accadeva nel Mediterraneo, reagendo alle ventimila morti in mare negli ultimi vent’anni come di fronte a un fatto che non ci riguardava, quindi perfino accettabile. L’Europa non si è saputa dotare con lungimiranza di leggi e strutture comunitarie per rispondere a un fenomeno non transitorio ma epocale, come denunciavano le organizzazioni umanitarie presenti sulla sponda sud del «Mare Nostrum». Ma sappiamo che chi ha ragione prima è inascoltato, quasi avesse torto. Poi il vento delle migrazioni ha iniziato a soffiare forte, con l’esplosione della Siria e della Libia. L’indifferenza si è tramutata a breve in paura e risentimento. I 28 Paesi dell’Ue hanno abbozzato qualche risposta, ma in molti casi viziata dal tarlo del respiro corto. Basti un’evidenza: dei 160 mila richiedenti asilo in Italia e Grecia da ricollocare in due anni in altri Stati dell’Unione secondo un accordo del 2015, finora solo 497 hanno lasciato i due Paesi per nuove destinazioni.

Eppure siamo il continente che ha pianto 20 milioni di morti nella Prima guerra mondiale e 70 milioni nella Seconda. Che si è saputo risollevare da questo abominio, da un mare di dolore e distruzione. Lo stesso continente oggi non è in grado di dare una risposta unitaria ed efficace a drammi di dimensioni molto minori. Certo, gli uomini e i leader politici che hanno fatto rinascere l’Europa dalle ceneri dei due conflitti mondiali erano fatti di un’altra pasta, soprattutto mossi da ideali che hanno permesso di lasciare in eredità alle future generazioni benessere e pace, dei quali ancora oggi godiamo. Dimentichi da dove veniamo, ci affidiamo ai reticolati per affrontare il mondo. Davvero povera Europa.

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