Il sacrilegio della guerra l’«offensiva» spirituale

La ragione si trova in un aggettivo, il più poderoso e potente che Jorge Mario Bergoglio ha utilizzato in questo mese di guerra: «sacrilego». È un’enunciazione definitiva, senza repliche, è il chiarimento perfetto di cosa si cela dietro ad ogni argomentazione che giustifica un conflitto e di chi si rimette alla «logica diabolica e perversa delle armi» (Bergoglio, 27 febbraio). Il sacrilegio è una profanazione con atti, comportamenti e parole, del tempio di Dio, cioè la vita, le persone, i luoghi, la creazione. Di fronte alla guerra minaccia del mondo, che ha già ucciso migliaia di persone e profanato la terra, Papa Francesco ieri ha compiuto un atto di offensiva spirituale consacrando l’umanità intera con Russia e Ucraina al Cuore Immacolato di Maria.

Ma c’è un particolare in più. C’è la consacrazione della Chiesa, perché in questa guerra, come molte volte in passato, anche uomini di Chiesa hanno giustificato la violenza, richiamato la logica della guerra santa, diviso fratelli profanando così il nome di Dio. Il metropolita ortodosso Hilarion, capo delle relazioni esterne del Patriarcato ortodosso di Mosca, in una lettera inviata al presidente dei vescovi europei il card. Jean-Claude Hollerich, aveva ammesso che le relazioni ecumeniche tra cristiani sono al livello più basso. Anche il dialogo ecumenico è finito sotto le bombe, quel dialogo per il quale Angelo Roncalli, prima come nunzio apostolico in Bulgaria, in Turchia e Grecia e poi come Papa del Concilio ecumenico Vaticano II aveva guidato con tenacia e fatica e altri Pontefici dopo di lui hanno aggiornato e allargato.

La consacrazione è un atto spirituale e politico, che Papa Francesco ha riportato al suo paradigma antico, forma di pietà per invocare e affidare alla Vergine Maria le tribolazioni e le sofferenze. Così fu nel 1917 secondo la richiesta della Madonna nelle apparizioni di Fatima per fermare la Grande Guerra. Bergoglio con la consacrazione di ieri lo ha riattualizzato riportandolo al suo senso iniziale, liberandolo dall’incrostazione ideologica appiccicata in questi cento anni nella Chiesa e fuori dalla Chiesa. Ha unito Russia e Ucraina, ma ciò non significa affatto che Bergoglio sia cinicamente equidistante, come alcuni tentano di far credere.

La narrativa sul conflitto di queste settimane da parte del Papa non lascia dubbi sulla sua analisi all’opposto di quella di Putin e del suo fedele Patriarca Kirill. Ma il Papa è preoccupato di tutte le vittime e del fatto che «con la guerra tutti perdono», come ha titolato ieri in prima pagina l’Osservatore Romano sulle fotografie di due bare, l’una avvolta nella bandiera ucraina e l’altra nel vessillo russo, dove due madri angosciate piangevano. Sono i lutti che lascia ogni guerra, quelli dove scava l’odio, quelli difficili da rimarginare, ma anche quelli che uniscono due popoli feriti. Non significa consegnare all’oblio le responsabilità. Rileggendo le parole del Papa di questo drammatico mese è chiarissima la condanna di una guerra ingiustificabile contro un Paese sovrano costretto a difendersi.

Ma è anche chiarissima la condanna della logica della guerra come strumento. Chi continua a meravigliarsi delle parole del Papa sulla corsa agli armamenti non ha mai letto il Vangelo. È contro quella logica a tutte le latitudini che lavora Francesco, come hanno fatto altri Papi prima di lui. Nulla è cambiato, sempre la stessa preoccupazione. Nel 2017 a Fatima Bergoglio aveva descritto uno scenario internazionale «denso di nubi» implorando «maggior consapevolezza dei comportamenti e delle azioni necessarie per imboccare un percorso di pace che diminuisca le tensioni». Ma nessuno lo ha ascoltato.

© RIPRODUZIONE RISERVATA