La Francia dice no
alla destra populista

La netta sconfitta della Le Pen è una buona notizia, ma la cautela del premier socialista Valls, che ha evitato toni trionfalistici e soprattutto di parlare di vittoria per il suo partito, dice che per la Francia è solo uno scampato pericolo: non eliminato. Lo choc del primo turno è stato addomesticato dal sistema elettorale, ma quel balzo in avanti di Madame Marine resta una dura lezione per la classe dirigente repubblicana (che in Francia vuol dire democratica).

La leader del Fronte nazionale ha perso anche in casa, nella zona di Calais. Dopo essere arrivata prima in 6 macroregioni su 13, la destra radicale è rimasta a mani vuote: 5 regioni ai socialisti, sette ai post gollisti e la Corsica ai regionalisti. Hanno pesato l’alta affluenza, la mobilitazione politica: un segno di maturità, perché la posta segnava un prima e un dopo. Dove c’era, il patto fra socialisti e destra democratica ha funzionato.

Il senso politico è che la destra oltranzista può sì raggiungere sul territorio punte persino del 40% ma non può arrivare al 50%: c’è un limite di «invotabilità», un handicap strutturale che impedisce al Fronte di entrare nel gioco dell’alternanza, pur facendo parte stabile del panorama politico. La maggioranza dei francesi, e non solo loro, giudica questa destra, nonostante la bonifica degli ultimi anni, infrequentabile perché xenofoba e alternativa alla cultura illuminista del Paese: è passato il messaggio che non si vota una formazione di questo genere per ragioni morali prima che di schieramento. Specie in una Francia in crisi d’identità e che ama pensarsi come titolare di una missione universalistica.

Il tonfo del Fronte non elimina comunque i suoi 6 milioni di elettori, il record di aver triplicato i consiglieri regionali e di essere diventato, al primo turno, il primo partito il cui consenso è sovrapponibile alle aree a più alto tasso di disoccupazione. I socialisti, che governavano quasi tutte le regioni, escono «non sconfitti»: se non altro perché erano dati emarginati. Sarkozy non può dirsi vincitore: resta impopolare, percepito come uno che divide, che ha spostato a destra i post gollisti senza mettere in seria difficoltà i socialisti. Il suo partito ha invece limitato i danni e ha conquistato pure la strategica regione parigina in mano ai socialisti dal ’98. La partita doppia del dare e dell’avere non può essere definitiva, in quanto stiamo parlando di una realtà politica terremotata dall’esito del primo turno: il risultato positivo del ballottaggio risponde più ad un’emergenza democratica che ad una ritrovata fiducia verso i partiti storici.

Anche perché la manina dei due turni ha un peso decisivo e può dire qualcosa a noi italiani che, con l’Italicum, esordiremo in questo mondo nuovo elettorale che va compreso negli strumenti e nella psicologia. Il ballottaggio impone il voto in trasferta, perché il primo turno è una sorta di selezione mentre il secondo costringe al voto strategico, cioè a turarsi il naso. In sostanza: al ballottaggio chi non ha più il candidato del cuore deve scegliere il politico che gli è meno lontano, cioè il male minore. Il resto lo fanno i patti di desistenza. Questo sistema premia il voto pragmatico e la governabilità, punisce i partiti estremisti che possono fare il pieno solo al primo turno, ma ha pure effetti distorsivi fra consenso e rappresentanza.

Visto che la questione ci riguarda, resta da vedere se l’Italicum, pensato per un match fra Pd e Forza Italia ma che allo stato sarà con i più temibili grillini, si rivelerà un buon affare per i riformisti.

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