La politica via social
Quesiti esclusi

Ci sono giorni nei quali il dibattito pubblico è dettato dal tweet lanciato nella Rete da parte di qualche autorevole esponente politico. Capita non raramente. Altre volte l’innesco è un post scritto in Facebook. Da tempo i social sono diventati uno strumento per fare politica: guai a non esserci. C’è chi è più abile a curare il proprio profilo e chi invece è più efficace nella definizione dei messaggi. Ma l’importante è esserci: al punto che un’accusa mossa all’ex primo ministro Paolo Gentiloni è stata quella di aver tenuto un basso profilo anche sui social.

Indubbiamente si tratta di strumenti utili per raggiungere in poco tempo con i propri messaggi migliaia, quando non milioni di persone. In questo mondo impalpabile il giovane Renzi si districava sicuramente meglio del suo successore Gentiloni. Fino a qui nessuna sorpresa. I problemi nascono quando chi ha un ruolo istituzionale abusa di queste piazze a danno delle sedi istituzionali del dibattito politico, e cioè Camera e Senato. Del resto è in voga il mito della democrazia diretta che dovrebbe sostituire quella rappresentativa, in base alla quale gli eletti rappresentano il popolo senza vincolo di mandato. Un altro punto critico riguarda l’annullamento del ruolo di mediazione e di vigilanza dei giornalisti, una categoria che gode di poca stima nel nostro Paese, accusata genericamente di essere al servizio dei poteri economici, giudiziari e politici (gli altri però….). Accuse in parte condivisibili ma non quando diventano una clava per colpire un’intera categoria, alla quale appartengono anche giornalisti sotto scorta perché nel mirino di poteri criminali.

Nella diretta live su Facebook da Pinzolo del 22 agosto scorso il vice primo ministro e ministro dell’Interno Matteo Salvini ha accusato i giornalisti di ipocrisia. In quella stessa esibizione Salvini passò l’ordine di divieto di sbarco ai migranti della «Diciotti» (escluse donne e bambini) e parlò di organizzazioni non governative sotto inchiesta per presunti collegamenti con trafficanti libici. Un giornalista informato avrebbe potuto obiettargli che tre di quelle quattro inchieste sono state archiviate perché il fatto non sussiste. Ma la politica via social gode di questo privilegio, non ama essere disturbata e parla direttamente al popolo. Un altro frequentatore di questo genere è l’altro vice primo ministro Luigi Di Maio, che non perde occasione per attaccare la carta stampata nazionale, anche quella che negli anni scorsi ha permesso implicitamente l’ascesa dei 5 Stelle mettendo sotto accusa l’immonda Casta. Per giorni ha dichiarato via social che il parere dell’Avvocatura di Stato sull’Ilva diceva che la gara era illegittima per eccesso di potere: come abbiamo visto non è andata così.

Ma ormai le dirette live in Facebook hanno sostituito le conferenze stampa, quando i leader politici oltre ad esporre novità e pensieri, erano chiamati a rispondere alle domande dei cronisti. Certamente i social hanno avuto il pregio di aprire il dibattito, di renderlo più pubblico ma privo di contrappesi. E soprattutto non sono un luogo sostitutivo delle istituzioni (il primo ministro Giuseppe Conte è andato in Parlamento poche volte in 100 giorni). E Silvio Berlusconi, il re della comunicazione, che fine ha fatto? Non è un grande frequentatore dei social. Intanto ha promosso un’operazione che è sfuggita a molti osservatori: ha limato le unghie a Rete4, nominando direttore del tg al posto del sulfureo Mario Giordano il moderato Gerardo Greco (già alla Rai), assoldando anche Barbara Palombelli, per un nuovo corso soft. Berlusconi e il suo entourage infatti si sono accorti che il passato palinsesto populista e aggressivo di Rete4 al voto del 4 marzo scorso ha aiutato di più Lega e 5 Stelle che non Forza Italia. E pure gratis.

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