Maggioranza spaccata
ma la crisi può attendere

La maggioranza si è mostrata ieri in Senato più debole che mai. Il presidente del Consiglio è andato in aula per dire poche cose, peraltro già note e pubblicate sui giornali, sulla vicenda dei presunti fondi russi alla Lega. L’unico punto implicitamente polemico è stato quando ha ammesso che da Salvini non ha avuto alcuna notizia su tutta la faccenda. Per il resto, doverose ma scontate rassicurazioni sul fatto che l’Italia resta alleata degli Stati Uniti, membro della Nato e fedele europeista, che la politica estera la fa lui insieme al ministro degli Esteri Moavero e che le amicizie russe di Salvini non hanno mai influenzato la nostra diplomazia.

Salvini, di suo, è rimasto al Viminale, ha seguito il discorso in tv e non si è fatto vedere a palazzo Madama (si era diffusa la voce che avrebbe forse parlato dai banchi della Lega). Per protesta contro l’assenza di Salvini i Cinque Stelle hanno deciso di lasciare l’aula appena Conte ha cominciato a parlare, finendo così per indebolire e anche offendere il «loro» presidente del Consiglio. Quanto ai leghisti, per non insistere troppo sulla evidente spaccatura della maggioranza hanno preferito polemizzare con il Pd e non con i 5S, ma il loro capogruppo non ha mancato di sottolineare sarcasticamente per tre volte «la solerzia» con cui Conte ha deciso di riferire in Senato «per una vicenda che non esiste». Sta di fatto che la distanza tra leghisti e grillini è apparsa in tutta la sua gravità gettando un’ulteriore ombra sul destino del Governo.

La divisione della maggioranza sarebbe risaltata con tutta chiarezza se i democratici non avessero escogitato un modo per prendersi loro la scena mediante una bella lite interna tra renziani e anti-renziani: Renzi, già iscritto a parlare a nome del Pd, non essendo gradito al segretario Zingaretti, ha rinunciato a prendere la parola, e i suoi hanno coperto di improperi la segreteria. Lui si è consolato con una diretta Facebook dove non ha potuto nascondere più di tanto l’arrabbiatura.

Se i leghisti hanno questa brutta gatta moscovita da pelare, i grillini hanno i loro guai: la decisione del governo, annunciata dal presidente del Consiglio, di rispettare contratti e trattati per fare la Tav ha scatenato una rivolta interna, più di base in realtà, che di vertice. In Piemonte i capi grillini del movimento no-Tav sono furibondi e minacciano di uscire dal movimento esattamente come è accaduto in Puglia con l’Ilva e il gasdotto, in Basilicata per le trivelle e in tutte le situazioni in cui il M5S di governo si è dovuto rimangiare le promesse elettorali di quando era all’opposizione, anzi meglio: ha dovuto rinnegare nei fatti quelle battaglie che avevano fatto nascere lo stesso movimento (proprio come la protesta in Val di Susa contro la Torino-Lione). Di Maio ha provato a salvare la faccia differenziandosi in apparenza da Conte, dicendo che lui è sempre contrario all’Alta velocità e che se la questione tornerà in Parlamento, il M5S voterà contro. Ma è una difesa di carta velina dove è chiarissima la tattica ed evidente l’imbarazzo: se ci fosse un voto sulla Tav i grillini sarebbero i soli a votare no insieme all’ultrasinistra di Fratoianni, mentre tutti gli altri voterebbero a favore. La loro «testimonianza» sarebbe ininfluente. Il primo a saperlo è Beppe Grillo che si proclama «molto scontento» e prende vistosamente le distanze dal movimento che lui stesso ha fondato.

Da tutto ciò si può immaginare una crisi di governo imminente? Difficile dirlo ma impossibile escluderlo. Ieri Di Maio, nella diretta Facebook ha detto: «Se ascoltassimo quelli che ci consigliano di aprire la crisi di governo, apriremmo la strada a un governo tecnico che farebbe non solo la Tav ma anche il nucleare». Ammissione importante perché vuol dire che i partiti sono consapevoli del fatto che il ricorso alle urne non sarebbe dietro l’angolo in caso di dimissioni di Conte. Comincerebbe dunque per loro, lontano dal potere di oggi, una lunga traversata nel deserto che, come è noto, è sempre un posto pieno di insidie e di pericoli.

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