Non solamente muri, così si annienta il senso delle cose e dei luoghi

Gli ospedali, le case, le chiese, le scuole, i musei, i teatri. Le città dell’Ucraina si sgretolano sotto le bombe russe. Il fuoco brucia identità, le macerie devastano popoli fratelli, le lacrime e il sangue sbaragliano le Russie storiche in un vortice di terrore. Da un mese assistiamo all’«urbicidio», scempio e delitto, crimine contro l’umanità, distruzione non solo delle pietre, ma anche degli affetti, non solo dei muri, ma dei sentimenti, delle emozioni, non solo degli spazi, ma anche delle memorie. La vita si divide. C’è un prima e un poi nella pratica abominevole dell’urbicidio, perché si annienta il senso delle cose e dei luoghi, che mai dopo saranno come prima.

Putin ha attuato una strategia efficace, già conosciuta, orrore distribuito dai suoi jet, atrocità viste a Sarajevo, a Dobrovnik bombardata dal mare senza mai essere stata area militare strategica, a Vukovar, dove tutte le case sistematicamente furono spianate, ospedale compreso, ad Aleppo, a Homs e prima ancora a Coventry e a Dresda, a Stalingrado, a Hiroshima e Nagasaki. L’urbicidio è un concetto complesso, annichilimento della comunità e soprattutto del suo destino, dei suoi valori, della cultura. S’inizia da Cartagine, per buona memoria.

A Sarajevo i serbi colpirono deliberatamente la biblioteca, bruciò per giorni, libri in fumo, delitto simbolico, maglio che spiana convivenza e consuma le parole. Come a Mostar dove per ore le artiglierie croate imperversarono sul ponte che si rifiutava di cadere. Urbicidio come omicidio rituale, calunnia criminale, oltre il contrappunto dell’aggressore e dell’aggredito. A Kharkiv hanno colpito l’università Karazin, la migliore dell’Ucraina. Ma è la lunga teoria di palazzi, di strade sventrate, alberi affumicati, piazze lacerate a dimostrare la volontà criminale di Mosca di cancellare la tradizione di un popolo. Quello che abbiamo visto in questi giorni è la nuova versione della guerra etnica, più tragica e dolorose di quelle conosciute fin qui, perché tra fratelli.

Le dispute sulla Rus’ in Ucraina datano secoli su chi sia il vero erede del battesimo: l’ucraino Volodymyr o il russo Vladimir? Mosca è nata da una costola di Kiev o viceversa? E poi il litigio sulla lingua che ha visto incrociare le sintassi come spade, idioma ucraino da primato e russo derivato dialettale o viceversa? Tra Mosca e Kiev si discute, si mette in dubbio, si critica, si obietta almeno dall’anno 988, battesimo della Rus’, inizio della fraternità tra popoli fieri e della singolare vocazione di uno spazio che ha diviso e unito l’Oriente e l’Occidente, U Kraina, Sul Confine, come osservò Giovanni Paolo II 30 anni fa nel suo memorabile viaggio a Kiev. Oggi le legittime e spesso feconde controversie culturali e identitarie, politiche e religiose, sono state risolte da Mosca a suo modo, sbarazzandosi dei luoghi e del loro senso, liquidando la fratellanza, nel tentativo di riscrivere la storia con lo stesso alfabeto, ma dopo aver colmato la bocca di sangue di chi lo legge dalla parte sbagliata. Così si uccidono le città, si sventrano le comunità, spazio urbano come bersaglio perfetto, urbicidio appunto, cancellazione deliberata e violenta della memoria collettiva di pietra. Le città lungo i fiumi d’Ucraina, colme di fumo, tappeti di calcinacci e vetri, ammasso di rovine, hanno oggi la stessa geografia urbana di Auschwitz - Birkenau, perché l’urbicidio è una delle forme di genocidio, profilo illegittimo della guerra, se mai ce ne fosse uno legittimo, e crimine contro l’umanità. Ma nessuno, siamo sicuri, pagherà. Come per Sarajevo, Dubrovnik, Vukovar, Dresda, Coventry e Stalingrado, Hiroshima e Nagasaki, come per Cartagine. E così l’odio resterà conficcato nei cuori per generazioni.

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