Politica in ritardo, resta il decreto

Il commento. Caro bollette: i partiti all’assalto del governo. Questa la (non) notizia del giorno. «Decreto legge, decreto legge» invocano all’unisono tutte le forze politiche, pressando il presidente del Consiglio, affinché predisponga un provvedimento che tutte si dichiarano pronte ad approvare in Parlamento.

Chissà perché i partiti (soprattutto quelli che hanno disarcionato Draghi) si sono svegliati soltanto da poco. Eppure, non ci voleva un genio per capire – già il 24 febbraio scorso – che la crisi sarebbe arrivata inevitabilmente. All’aggressione russa, l’Unione europea ha risposto con aiuti militari all’Ucraina e con sanzioni economiche alla Russia. Le ritorsioni di Putin erano non soltanto prevedibili, ma scontate. Occorreva trovare per tempo i rimedi. Il governo Draghi si era mosso con solerzia, sia sul piano degli aiuti, sia su quello della ricerca di fonti alternative, per non soccombere alla dipendenza dalla Russia, ma la crisi di governo ha rallentato ogni programma di contrasto al pazzesco aumento del costo dell’energia.

Il dibattito di questi giorni sembra alimentato prevalentemente dallo scopo di aumentare il consenso e raccogliere voti alle elezioni del 25 settembre. La febbre del decreto ha portato i partiti a decidere di vedersi tutti insieme, affinché il governo intervenga. A questo punto, si possono ipotizzare due scenari. Il governo ritiene di non poter operare, oppure decide di intervenire nonostante non sia nella pienezza dei poteri. La statura politica, il senso dello Stato, la competenza di Draghi portano a credere che egli scelga di intervenire, pur essendo il governo chiamato, per norma, soltanto all’ordinaria amministrazione. I presupposti previsti dalla Costituzione per emanare un decreto legge esistono (necessità e urgenza). Si tratta di operare, partendo da questo assunto. Per cominciare - con la consueta dimostrazione di serietà e rigore - il presidente del Consiglio ha fatto sapere che esso potrà fare scelte mirate e applicabili soltanto quando arriveranno (a breve) i conti consuntivi di agosto.

Dietro il palcoscenico della politica e al servizio delle scelte di governo ci sono gli apparati burocratici. L’importanza di questo elemento sfugge quasi sempre, essendo l’attenzione pubblica rivolta quasi esclusivamente alle decisioni di Parlamento e governo. I tempi stringono, le richieste dell’opinione pubblica e delle imprese si fanno sempre più pressanti. In queste condizioni tocca ai «tecnici» individuare e proporre soluzioni adeguate e percorribili. Il sistema pubblico ha, sul terreno della spesa e degli introiti, alcune antiche roccaforti. Il perno principale è la Ragioneria generale dello Stato, instituita nel 1869 presso l’allora ministero delle Finanze. Fondamentale anche il ruolo della Agenzie fiscali, nonché degli uffici di bilancio presso i ministeri.

Questo articolato stuolo di tecnici della finanza pubblica - normalmente impegnato in un compito di non facile svolgimento - è, nelle contingenze attuali, alle prese con una serie di variabili di diversa natura. Ad iniziare da un problema politico del quale deve tener conto: ci sarà o meno uno «scostamento di bilancio» (che implica un aumento del deficit pubblico)? Naturalmente, vale anche il problema reciproco. Gli esperti ministeriali possono far presente al presidente del Consiglio se sia il caso o meno di procedere in tal senso. Si incrociano, dunque fattori complessi quali l’obbligo dei funzionari pubblici di assecondare l’indirizzo politico e, nel contempo l’esigenza di operare senza pressioni indebite da parte sia della politica, sia degli interessi di «poteri forti» del mondo privato. L’auspicato decreto - sul quale convergono le esigenze dei partiti, le necessità dei cittadini, l’obbligo di far quadrare i conti - dovrebbe riuscire ad essere una sintesi equa ed utile per il Paese. A molti, quale che sia la soluzione, non piacerà. Ma, come sempre, il possibile non coincide con l’ottimo.

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