Quest’Italia ha perso
la voglia di sognare

Era un’Italia in bianco e nero, e che soffriva la fame, quella del 2 giugno ’46 che vota per la Repubblica e per i deputati della Costituente, che poi hanno scritto la Costituzione del ’48. Nel vuoto della memoria collettiva, ricordare come eravamo è una guida per il presente. Scarseggiavano i beni di prima necessità e l’inverno era stato terribile per l’assenza di legna e carbone. De Gasperi, nel gennaio ’47, va in America con il cappotto «rivoltato», perché non poteva permettersene uno nuovo.

La guerra aveva lasciato un Paese devastato: si doveva ricostruire e pacificare le coscienze. In tempi recenti l’amarezza farà dire a Ciampi, il presidente del patriottismo costituzionale, che questo «non è il Paese che sognavo». E lo afferma nel contrasto con l’Italia dalla schiena dritta di ieri, che nella sofferenza aveva trovato un orizzonte comune di speranza, un’idea di comunità condivisa almeno nei fondamentali. Lo stesso diritto di voto alle donne, che per la prima volta partecipano ad elezioni politiche, è il segno di una voglia di emancipazione.

Quel 2 giugno è quindi un punto di svolta e un traguardo storico, due passaggi d’epoca segnati da una classe dirigente cresciuta nell’attivismo antifascista, uomini con il senso dello Stato consapevoli di far valere le ragioni del Paese su quelle ideologiche, che c’erano eccome. L’Italia democratica nasce repubblicana, ma senza fanfare, perché – ha scritto lo storico Pietro Scoppola - «quella pacificazione e quella unità nuova cui i cattolici avevano contribuito con la loro presenza nel Paese erano l’obiettivo preminente nella mente dello statista trentino». A De Gasperi, che spersonalizza e sdrammatizza la vittoria sulla monarchia, con uno scarto peraltro esiguo e contestato, riesce così la saldatura fra la nuova Italia repubblicana e quella vecchia sabauda, garantendo il consenso popolare alle nascenti istituzioni: non è un paradosso che i primi due presidenti della Repubblica, De Nicola ed Einaudi, siano stati due monarchici. Una democrazia che non punisce e che non insegue rivincite, ma che vuole educare.

Quella strategia del consenso, pur con tutti i limiti di un sistema consociativo, la si ritrova nella Costituzione il cui varo resiste alla rottura, nel ’47, fra la Dc e le sinistre. La storia della Repubblica, condizionata dalla «paura del tiranno» dopo il ventennio fascista e più tardi dal fattore K (comunismo), è segnata sin dall’inizio dal protagonismo dei partiti (in particolare dei partiti di massa: democristiani, comunisti, socialisti), dal sistema elettorale proporzionale e dal legame fra diritti civili e diritti sociali sancito dalla Carta del ’48.

Quelle culture e quel mondo non esistono più, ma è rimasto il deficit di partenza descritto da Scoppola: «La democrazia italiana rinasce per così dire squilibrata verso il suo elemento utopico a danno dell’elemento funzionale». Dagli anni ’80, dalla Grande Riforma di Craxi alle picconate di Cossiga per finire alla devolution del centrodestra bocciata dagli elettori, qualsiasi tentativo di rivedere lo strumento dello stare insieme degli italiani è fallito. Anche perché, come nel caso della rivendicazione territoriale di Berlusconi-Bossi, è stato un armare le truppe, una battaglia politica legata alla congiuntura del momento. È il rischio che corre anche Renzi, personalizzando la contesa e motivando il necessario intervento chirurgico sulla Costituzione con gli argomenti spiccioli del populismo che fanno cassetta. Le analogie fra ieri e oggi, se possibili, misurano la distanza fra statisti e dirigenti politici, pur svegli e capaci e con le loro ragioni, fra il peso dei partiti popolari e la leggerezza della democrazia del leader e le ambiguità della formula «il capo e la folla» che ormai è il volto oscuro della modernizzazione.

La tecnica è solo parte di una vicenda storico-politica e in definitiva di una delicata questione democratica che va presa sul serio, perché la riforma chiama in causa un progetto di società destinato a sopravvivere alle fortune dei leader di turno. È quel che ha scritto in altri termini il presidente Mattarella, riunendo un richiamo e un auspicio: «Non saper guardare oltre il presente costituisce uno dei limiti più grandi del nostro tempo. La scelta repubblicana fu, allora, il risultato di uno sguardo lungo. Sono convinto che disponiamo di tutte le energie per progettare insieme un futuro migliore».

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