Riforme, sì grazie
ma la classe dirigente?

Va bene il superamento del bicameralismo perfetto che impone il defatigante doppio percorso di ogni legge alla Camera e al Senato. Va bene la semplificazione del macchinoso sistema delle autonomie con l’abolizione delle Province. Va bene la sforbiciata alla selva di vantaggi, privilegi, autentiche ruberie della Casta.

Ma alla fine resta il dato inoppugnabile che le istituzioni camminano con le gambe e – c’è da augurarsi – anche con le teste degli uomini, per cui non è indifferente il metodo con cui si scelgono parlamentari, amministratori, governanti. Piaccia o no, sono i partiti i veri depositari della scelta del personale politico. È su di loro, perciò, che bisogna appuntare l’attenzione.

Fino a quando essi avevano goduto di buona salute, esisteva un preciso cursus honorum (dalla sezione comunale alla federazione provinciale su su fino alla direzione nazionale, passando per vari incarichi istituzionali) che garantiva una selezione apprezzabile del personale politico. Con il cataclisma di Tangentopoli e la «fine delle ideologie», in tema di classe dirigente è iniziato il cammino in un territorio inesplorato, dove i partiti mostrano di muoversi a tentoni finendo spesso – a dire il vero, quasi sempre – a sbattere la testa contro il muro.

Hanno cominciato a sperimentare «i dilettanti allo sbaraglio» (Forza Italia prima versione) scelti con il metodo sbrigativo dei casting televisivi: un sorriso, un look, una formula di rito e le porte di Montecitorio si spalancavano alle new entry. Il presupposto era che la «gente» fosse comunque sempre meglio dei «professionisti della politica». Si è proseguito con la scelta affidata, prima al popolo dei propri elettori (le primarie del Pd), poi al pubblico web (le parlamentarie del M5S). L’assunto indimostrato, nel primo caso, è che ciò che piace all’iscritto debba piacere anche al cittadino e, soprattutto, che chi risulta popolare sia destinato ad esser anche un buon governante/amministratore. Nel secondo caso si vorrebbe far credere che un click di pochi aficionados, deciso dopo aver visionato un semplice video autoprodotto, valga per l’intero corpo degli elettori e, soprattutto, che «un uomo qualunque venuto da Internet» sia automaticamente un buon politico.

I fragorosi insuccessi di alcuni candidati (Raffaella Paita in Liguria e Alessandra Moretti in Veneto) e la prova non proprio smagliante offerta da alcuni eletti (uno per tutti, il sindaco Marino a Roma), tutti passati attraverso il filtro delle primarie, hanno rapidamente raffreddato gli entusiasmi per le investiture effettuate dalla base elettorale – vera o inquinata da incursioni nemiche che sia – del partito. Un’imbarazzata autocritica sulle parlamentarie è venuta anche dai Cinquestelle. Grillo ha ammesso: «Nel 2013 abbiamo imbarcato chiunque» e, aggiungiamo noi, non sempre il meglio.

I partiti continuano, insomma a navigare tutti a vista, divisi tra una residua nostalgia dei gloriosi tempi passati, in cui l’elettore firmava regolarmente una cambiale in bianco al partito per la scelta degli eletti, e l’esaltazione gratuita di sempre nuovi marchingegni, tra una resa al volatile umor popolare del momento e l’improvvisazione di qualche ingegnoso espediente, nell’illusione di recuperare la credibilità perduta. Manca la consapevolezza nei dirigenti che la selezione del personale politico è una prova troppo seria per sperare di superarla con l’estemporaneità e la faciloneria sinora dimostrate.

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