Sicurezza: le falle
e gli appelli rischiosi

Le indagini sugli attentati terroristici in Francia, Belgio e Germania hanno portato alla luce falle nell’azione di prevenzione di forze dell’ordine e servizi segreti. Gli autori delle stragi erano persone spesso note e sotto osservazione da parte di chi monitora il complesso mondo del radicalismo islamista. Gli esterofili di casa nostra (quelli che «certe cose succedono solo in Italia») su questo fronte non hanno molti argomenti.

Gli inquirenti italiani hanno dato prova di valore, agevolati dal fatto che nel nostro Paese, a differenza senz’altro di Francia e Belgio ma anche della Gran Bretagna , non ci sono periferie abitate a maggioranza da popolazione islamica ma l’accoglienza è avvenuta in maniera diffusa e plurale nei territori. Una prerogativa che evita il proliferare di «zone grigie» dove allignano il risentimento e la «copertura» del radicalismo. Ovviamente l’Italia non è esente dal rischio di attentati, perché il terrorismo che si ispira all’Isis ha assunto anche la forma «molecolare» dei lupi solitari che aderiscono alla causa rapidamente, passando dalla propaganda all’azione criminale senza bisogno di un mandato politico dalle roccaforti dello Stato islamico in Siria e Iraq.

Ma anche in Italia intorno alle inchieste sul terrorismo di matrice islamica si verifica un cortocircuito: gli esiti di alcune indagini hanno infatti ricevuto valutazioni discordanti nei diversi gradi di giudizio e tra Procure. Il punto di discordia riguarda la capacità concreta di organizzare attentati, di passare cioè dalle parole ai fatti. Un caso emblematico è avvenuto a Bari, con l’arresto di due afghani per aver filmato centri commerciali e aeroporti. Il giudice per le indagini preliminari però ne ordinò la scarcerazione. Di parere opposto il Tribunale del Riesame che ha stabilito il ritorno in cella delle due persone, con questa motivazione: «Il salto di qualità del terrorismo su scala mondiale, fa ritenere che il passaggio dalla fase preparatoria a quella operativa sia repentino, imprevedibile nei tempi, condotto anche da singoli individui senza un supporto sul campo di complici: e la fattispecie, in quanto di pericolo, non richiede che l’atto di violenza sia realizzato».

Le valutazioni di scordanti sulle inchieste non sono una novità del nostro sistema giudiziario ma su questo punto particolarmente caldo il Parlamento dovrebbe intervenire per aggiornare e chiarire le norme. I ritardi vanno coperti anche dotando le forze dell’ordine del personale necessario allo scopo (un esempio: i traduttori dall’arabo) e su un fronte che comprende pure la cosiddetta «cyber jiahd»: il 90% di chi si affilia all’Isis e di chi va a combattere in Siria e Iraq è indottrinato infatti attraverso internet, non nelle moschee. Alessandro Gazoia, scrittore e saggista, si è preso la briga di studiare il materiale dello Stato islamico in circolazione nel web, traendo alcune conclusioni (nel libro «Senza filtro. Chi controlla l’informazione»): sono strumenti di propaganda che puntano a generare empatia, certezza e determinazione nel lettore, attraverso un «indottrinamento rigidissimo, martellante e militare» e giocando sulla «vittimizzazione, il riscatto e il senso di unità sovranazionale»).

L’ideologia jihadista dell’Isis in questo senso (prendendo a prestito un altro saggio, questa volta di Renzo Guolo) è «l’ultima utopia» capace di unire sotto la stessa bandiera persone con motivazioni diverse, spesso personali (frustrazione e disadattamento) ma accomunate da un desiderio di vendetta verso l’Occidente reo, agli occhi degli islamisti, della colonizzazione anche culturale con la modernità e dello sfruttamento del mondo islamico. Un’ideologia politica, con la religione che fa da sfondo. Già nel 2006 il filosofo tedesco Peter Sloterdijk nel saggio «Ira e tempo» poneva una domanda: può considerarsi il jihad come la nuova «lotta di classe», con la figura del capitalista sostituita dall’infedele? È solo un caso, aggiungiamo noi, che questa ideologia nichilista e mortifera faccia presa anche su giovani occidentali che poi vanno a combattere in Medio Oriente, i cosiddetti «foreign fighter» (5 mila solo i casi accertati in Europa)? La Francia si è presa a cuore il problema promuovendo anche un Piano d’azione contro il radicalismo, avendo verificato che le tattiche tradizionali dell’anti-terrorismo non sono più sufficienti a contrastare l’ideologia.

Intanto nella lotta al terrorismo va registrata la presa di posizione di islamici residenti in Italia che vanno oltre la condanna degli attentati. Operazioni delle forze dell’ordine conclusesi con l’espulsione di persone affiliate all’Isis sono state rese possibili grazie alla collaborazione silenziosa degli imam. In un caso addirittura un immigrato marocchino residente nel Padovano ha denunciato il fratello che inneggiava allo Stato islamico. Questi fatti confermano quanto sia ingiusto e pericoloso guardare all’islam come a un monolite, senza saperne leggere complessità, varietà, mutamenti e dolorosi conflitti interni. Risultano quindi alquanto irresponsabili le critiche a Papa Francesco per aver parlato di «guerra ma non di religione». Davvero sarebbe razionale e utile dare la patente di religione all’ideologia islamista? E con quali ricadute possibili? Sottrarsi al gioco dello Stato islamico che vuole annullare differenze, distinzioni e punti di incontro, è un atto di intelligenza, non di codardia. A generare punti di incontro era dedicato anche l’impegno di padre Jacques Hamel, l’anziano prete ucciso in chiesa a Rouen. Il martire per i cristiani è colui che interrompe la spirale di vendetta in cui il mondo rischia di avvitarsi.

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