Uomini soli al comando
Il dilemma dei 5 Stelle

Quel che la legislatura aveva da dire l’ha detto (o meglio, ha tentato di dirlo) con Renzi. Il discorso s’è, però, chiuso sostanzialmente il 4 dicembre di un anno fa, quando gli italiani bocciando la sua riforma istituzionale hanno di fatto liquidato anche la sua ambizione di divenire il motore immobile dell’ansimante sistema politico. Nata sotto il segno dell’incertezza a seguito della mancata vittoria del Pd di Bersani, la legislatura si avvia in tal modo a chiudere senza aver superata l’originaria incertezza, bensì avendola complicata con nuovi interrogativi. A distanza di ormai pochi mesi dalla convocazione dei comizi elettorali, non sappiamo infatti ancora né con quale sistema voteremo né se alla fine riusciremo ad avere un governo, stante la presenza sulla scena politica non più di due bensì di tre competitori, l’un contro l’altro armati.

Già nodi di questo spessore basterebbero a rendere il prossimo un passaggio elettorale non di routine. Grava poi sull’orizzonte della politica l’eventualità, per nulla improbabile, che il voto si trasformi nella prova del fuoco per i Cinquestelle. Solo ad urne aperte, infatti, sapremo se gli elettori conferiranno loro il mandato a realizzare la missione auto-attribuitasi di liberare il popolo dalla prigionia dei partiti in vista della terra promessa: la democrazia diretta.

A ben guardare, sotto il polverone della polemica spicciola quotidiana si vede che è stato proprio il M5S lo stabile convitato di pietra che ha condizionato in tutti questi anni il normale svolgimento della vita politica. Mai disposti a praticare l’arte del possibile pur di ottenere qualche risultato utile, gli uomini di Grillo hanno puntato invece tutto sull’intransigenza, affidandosi al gioco di sponda. Ad ogni iniziativa dei partiti di governo «il movimento» s’è limitato a alzare il suo controcanto, intonando sempre la stessa melodia della democrazia diretta. In un’epoca di somma impopolarità della politica istituzionale è stato gioco facile stare fuori campo a denunciare l’imperizia o, peggio, la scorrettezza dei giocatori. Con l’approssimarsi però delle urne, invocate dai Cinquestelle come il loro battesimo definitivo a forza di governo, l’espediente retorico di sollevare lo scandalo sulle pecche degli altri non regge più. Non è di altri che devono parlare ormai, ma di se stessi.

Visto che si sono proposti come apostoli di una democrazia pienamente partecipata, alla luce delle prove non certo esaltanti fornite nella guida della Capitale, due sono in particolare i quesiti cui si attende da loro una risposta convincente. Domanda numero uno: dobbiamo aspettarci che la squadra di governo venga indicata da un comico di Genova e/o da un esperto di marketing di Milano, entrambi privati «cittadini», mai eletti eppure decisori in ultima istanza di ogni passaggio cruciale del movimento, come s’è visto a Roma?

Domanda numero due: ogni futuro atto di governo sarà sottoposto al vaglio della piattaforma Rousseau di proprietà (e sotto il controllo) sempre della Casaleggio Associati, col risultato che i 140 mila suoi utenti decideranno per 60 milioni di italiani? Chi si lamenta dell’uomo solo al comando e del potere affidato al sistema dei partiti non può pensare che la soluzione del problema sia mettere due uomini soli al comando o affidare ogni decisione ultima a una società privata.

© RIPRODUZIONE RISERVATA