Vince la protesta
Schiaffo alla «casta»

Dai primi dati emersi nella notte elettorale vengono alcune considerazioni politiche generali prima ancora che previsioni sulle maggioranze numeriche che potranno (potrebbero?) dar luogo ad un governo, cosa in questo momento avvolta nell’ombra delle possibilità. E le considerazioni politiche si riassumono in una singola affermazioni: le urne hanno fatto prevalere l’onda della protesta sui partiti tradizionali, e da quel che si capisce questa divaricazione non è solo patrimonio del Sud, dove chiaramente si affermano i grillini, ma anche di quel Nord dove risorge la Lega.

Sono loro i due partiti che, allo stato possono cantare vittoria: il Movimento Cinque Stelle e la Lega di Salvini. Il primo perché è il primo partito italiano e va oltre i già generosi sondaggi della vigilia; il secondo perché si afferma nel centrodestra e non si genuflette di fronte al primato berlusconiano. Beninteso: i dati su cui stiamo ragionando sono ancora quelli grezzi delle prime ore e probabilmente verranno limati in un senso o nell’altro (la clamorosa gaffe dei sondaggisti nel 2013 induce tutti alla cautela), però i flussi elettorali sembrano incontestabili.

Chi ha votato Cinque Stelle ha inteso dare fiducia ad una forza movimentista, giovane, fuori del circuito del potere senza tener conto della volubilità dei programmi, della scarsa qualificazione dei suoi esponenti, delle meno che mediocri prova amministrative finora rese dal M5S, tutti elementi considerati secondari rispetto al desiderio di dare uno schiaffo alla «casta» dei partiti, alla nomenklatura burocratica, al mondo del potere insomma, sia nazionale che europeo.

È la rivolta elettorale dei ceti sociali che più hanno subito la crisi economica e che non hanno più fiducia nei partiti che da sempre li hanno rappresentati, siano essi strati popolari o piccolo-medio borghesi impoveriti. Chi ha votato Lega, d’altro canto, ha espresso il suo favore ad una protesta contro l’immigrazione clandestina, contro la legge Fornero, contro tutto ciò che è «politicamente corretto». Non ci si può dunque meravigliare del crollo della sinistra – del Pd ma anche dei suoi concorrenti di LeU – se ci si rende conto che circa la metà dell’elettorato italiano si è mosso lungo questa corrente.

Se questo è il risultato più clamoroso, la conseguenza è appunto che i partiti che hanno governato nei venti e passa anni della Seconda Repubblica, e cioè la Forza Italia berlusconiana e la sinistra riformista, hanno perso buona parte della loro rappresentanza e ormai, da quel che si capisce, non hanno nemmeno la forza di arroccarsi in una intesa «istituzionale» che non avrebbe nemmeno i voti parlamentari per reggere in piedi un governo «di responsabilità» nazionale ed europea. Berlusconi subisce la concorrenza del populismo leghista su cui aveva garantito con i partner europei, e Renzi non riesce a far fruttare i risultati – che pure ci sono stati – dei governi di centrosinistra che dal 2011 ad oggi hanno evitato la bancarotta e riportato l’Italia sui binari della crescita.

Il quadro italiano che emerge da queste prime indicazioni è dunque chiaro: adesso però si tratta di capire quali saranno i numeri del rivolgimento cui stiamo assistendo. Come è noto il sistema elettorale vigente, il Rosatellum cosiddetto, è abbastanza bizzarro e dalle percentuali ai seggi parlamentari c’è un passaggio non del tutto logico.

Quando il quadro sarà assestato, e avverrà nella giornata di oggi, capiremo se e come si potranno avviare le trattative per la formazione di un governo. Cosa che per il momento è del tutto vaga e indeterminata: non ci meraviglieremmo se dovessimo assistere a più scomposizioni delle formazioni politiche che si sono presentate alla competizione. Tutto questo riporta ancor più al centro della scena il ruolo del presidente della Repubblica: ritualmente ci si affida alla sua «saggezza», e mai come in questa occasione ce ne sarà bisogno.

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