Voto, due modelli
di democrazia

Le riforme costituzionali - dal versante tecnico - scaldano il cuore di chi è in grado di capirle, cioè di un salotto di nicchia, ma poi riguardano tutti, dato che «ogni cittadino è destinato a soffrire se la sua vita è regolata da un cattivo governo e da una cattiva politica: le Carte costituzionali sono le strutture dalle quali dipende se saremo ben governati o mal governati». Così insegna Giovanni Sartori, l’inventore dell’ingegneria costituzionale, il quale, a quegli studenti che gli chiedevano se la tal riforma era bella o brutta, rispondeva: «Giovanotto, si ripresenti al prossimo appello». Il quesito, quindi, dinanzi al voto di oggi, dovrebbe essere un altro: il Paese compie un passo avanti quanto a efficienza?

Non esistono, anzi non possono esistere, istituzioni perfette e anche questa riforma presenta aspetti critici di cui sono consapevoli gli stessi sostenitori, ma non tali da bocciarne l’impianto. È sempre una questione di bilanciamento fra indirizzo politico e sistema delle garanzie, sapendo poi che le norme vivono nella società: occorrono le leggi attuative e del resto la Costituzione del ’48 non è ancora stata completata. L’importante è votare, perché la Carta è una questione nostra: non c’è il quorum, il referendum è valido a prescindere dal numero di elettori, ma disertare non sarebbe una scelta politica, piuttosto una delega in bianco al vincitore.

Per i due fronti sarà decisivo portare alle urne più persone e convincere gli indecisi, con due incognite: il livello di partecipazione del Sud, precipitato al referendum costituzionale del 2006, e il comportamento dell’elettorato grillino all’esordio su questi temi. Da una parte c’è quasi tutto il Pd e dall’altra le diverse opposizioni. Si capisce così l’appello di Renzi alla «maggioranza silenziosa», il corpaccione di mezzo moderato e scarsamente ideologico, riunito da Montanelli negli anni ’70 in chiave anticomunista per votare Dc «turandosi il naso» e oggi chiamato ad una scelta riformista. In gioco c’è la riforma della seconda parte della Costituzione, l’ordinamento della Repubblica, la macchina dello Stato e, per quanto tutto si tenga, non sono ovviamente toccati i principi fondamentali e i diritti e i doveri dei cittadini. Il cuore della riforma è il superamento dell’anomalia italiana nel panorama europeo, cioè del bicameralismo perfetto: il Senato non avrà più le stesse funzioni della Camera, ma diventerà l’assemblea delle autonomie territoriali. Quindi cambiano i rapporti fra governo e Parlamento e fra Regioni e Stato. Non si vota per l’Italicum, tuttavia il legame politico c’è: le due riforme nascono, vivono e semmai muoiono insieme. Il Sì e il No esprimono due modelli differenti di democrazia rappresentativa: il primo punta sulla governabilità e sulla semplificazione legislativa, l’altro sulla rappresentanza e sulla centralità del Parlamento. Entrambi hanno pari dignità, ma gli effetti sono diversi: con il Sì si cambia, con il No tutto resta come prima. Gli oppositori, più che una proposta organica alternativa, hanno manifestato dubbi e preoccupazioni che in parte ci stanno, ma parlare di «deriva autoritaria» (specie se a dirlo sono Berlusconi e Salvini) è andare oltre la forzatura propagandistica.

Nelle condizioni date e in questo clima politico, si tratta comunque dell’ultimo treno ed è irrealistico pensare ad un secondo tempo, tanto più che non capita spesso di trovare un Senato disposto ad autoabolirsi. Il senso di marcia è che siamo dentro un processo di trasformazione di tutte le democrazie occidentali per superare condizioni storiche che non esistono più e situazioni sociali ed economiche in via di estinzione: la democrazia, per non perire, deve reinventarsi e trovare nuovi strumenti. E del resto la riforma nasce da lontano, è in agenda dai primi anni ’80 e questo significa che era ed è sentita dal mondo politico.

Ma è una vicenda di occasioni mancate, di non aver voluto o potuto esaurire la transizione iniziata negli anni ’90. Così come è stata un’occasione mancata, in termini di maturità, questa campagna elettorale anomala per lunghezza, toni esasperati e velenosi, sospesa fra trionfalismo e prospettive apocalittiche, slittando da un giudizio sulla Costituzione a quello sul governo e declassando il valore stesso dell’oggetto del contendere. Conosciamo gli errori di Renzi, riconosciuti e solo in parte corretti, e lo straparlare di una parte dei suoi oppositori, ma questo appuntamento cruciale lascerà una scia di risentimenti che andranno ricomposti, non fosse altro perché stiamo discutendo della «casa di tutti». La storia non finisce questa sera e la vita continua: vedremo come.

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