Luciano Ravasio: «I vaccini sono l’unica via ed è difficile capire chi non lo vede»

#iomivaccino - Il cantautore bergamasco ha attraversato l’esperienza del Covid. Ora ha già fatto la terza dose.

Il terzo richiamo l’ha già fatto, Luciano Ravasio: professore, cantautore, appassionato di poesie dialettali e tradizioni popolari. Come chi scrive è stato vittima della prima ondata del Covid-19 e dunque sa bene di cosa si tratta. Tra i vaccinisti straconvinti e i no vax irrazionali, ammette di non aver «cultura». «A dir la verità – racconta Ravasio – mi fido di più della cultura della mia consorte, che non è laureata in medicina, ma era fuori corso quando ci eravamo fidanzati e di cose ne sa parecchie. Lei è proprio scandalizzata del fatto che ci siano questi soggetti che negano l’evidenza e non si pieghino innanzi alla scienza. Mi ha fatto tradurre una lettera che ha scritto a degli amici americani e lei questa situazione la vive come una follia».

È comunque una follia minima.

«Il guaio grosso è che qualcosa o qualcuno ce la fa sembrare determinante».

Forse è un errore o una scelta di comunicazione? Se è vero che esiste una immunità di gregge rispetto a un certo numero di vaccinati dovremmo forse preoccuparci meno del problema?

«Non credo che, eliminati gli “eretici”, il Covid sparirebbe d’improvviso. Però è anche vero che non puoi guidare contromano, e non si può passare con il rosso. Questo tutti, in qualche modo, dovrebbero tenerlo presente. Se da un lato questa enfatizzazione dei no vax, novelli untori, la trovo fuori luogo, dall’altra la caparbietà di non piegarsi al consiglio della scienza è comunque suicida. Da quando c’è il vaiolo e il conseguente vaccino, non mi sembra ci siano state tante discussioni. Quando sono uscito dall’ospedale nel 2020, ho scritto una canzone sul fatto che a breve tutto sarebbe finito presto, prendendo una cantonata, perché il viaggio del virus sarebbe stato ben lungo. Ho utilizzato una melodia del cantastorie Merica sulla guerra. Ho sostituito la parola virus a guerra e mi sono reso conto che ci si trovava nella stessa situazione. Ero convinto che col vaccino l’avremmo controllata, la situazione. Con Piero Roncelli avevamo fatto la scenetta del Gioppino che combatte la pandemia e si porta via il malanno. E ne eravamo convinti. Poi ci siamo resi conto che non è proprio così. Ma resta difficile da capire che qualcuno non abbia capito che quella è l’unica strada».

Cosa è stato per lei il Covid?

«È stata un’esperienza forte che psicologicamente tendo a rimuovere, così come, mi dicono, tentano di fare quasi tutti quelli che ci sono passati. Non ci penso proprio. Mi sono impressionato quando mi sono reso conto che erano già passati sei mesi dall’ultimo vaccino. Quando è girata voce della terza dose mi sono subito prenotato».

Dunque il vaccino le ha messo addosso tranquillità?

«A me il vaccino ha messo una tale tranquillità che, al momento dei calcoli per la terza dose, avendo io sbagliato di un mese, mi sono agitato non poco. Mi ricordavo di aver fatto la seconda dose a giugno e invece era a maggio. Quando ho capito che era scaduto il tempo, mi sono preoccupato. Do fiducia alla scienza, anche se qualche dubbio rimane. Mi fido dei consigli in un ambito che non è il mio. È come quando vado dal meccanico. È chiaro che può manipolarti la macchina come vuole, ma d’altra parte io non ne so nulla, e dunque devo entrare in un rapporto di fiducia. E ho fiducia della medicina. Semmai potrei contestare l’inadeguatezza degli inizi, rispetto a quello che è stato lo tsunami del virus. I piani pandemici andrebbero aggiornati. Al momento del dramma tanta gente è rimasta tagliata fuori dai soccorsi. E se finivi in struttura non sapevi dove si andava a finire».

Lei però è finito vicino a casa, giusto?

«Sì, sono stato anche molto contento di come è stata gestita la mia situazione dai sanitari. Ero all’ospedale di Ponte San Pietro e dalla stanza vedevo il campanile della mia chiesa. Era un’immagine consolatoria. Mi piaceva vedere il campanile di Presezzo. Ero al quarto piano e dunque avevo davanti un orizzonte familiare. In qualche modo mi sentivo a casa. Quando sono stato dimesso ho fatto subito una canzoncina con dei ragazzi bresciani: The Boo. Avevano musicato il pezzo di Sting “Fields Of Gold” parlando del Covid come se fosse ormai in disarmo. Mi avevano chiesto di fare una strofetta e io ho raccontato l’esperienza».

Ci ricorda il testo?

«A me só malàt in del mis de mars / pò a’ mé gh’ó üt ol Covid…/ Sére mal cunsàt, me egnìa piö sö ’l fiàt / sére dré a ’ndà al mónd de là… / L’à ardàt zó ’l Signùr i è stai brae i dutùr / e i infermiér di àngei. / La m’è ’ndacia bé e só ché pò a’ mé / e ve cante sta cansù. /E nóter de Bèrghem e Brèssa / che m’à patìt piö tant de chi óter / ol có me l’à mai sbassàt: / ma gh’è amò in gir la pandemia / e nóter a m’mòla mia…”. Nella mia esperienza, sono stato molto colpito dalle premure dei medici e del personale sanitario».

Con la sua sensibilità d’artista, da appassionato di canzoni, di poesia dialettale, di tradizioni popolari, come ha vissuto le chiusure successive alla malattia?

«Non ci penso mai, è come se avessi rimosso tutto. Sono stato ricoverato proprio nel marzo del 2020, nel periodo della prima ondata. L’unica cosa che ricordo è che ero andato a vedere l’Atalanta a Valencia. Non vado mai, ma era per accontentare il figlio. Così mi sono trovato nella “pazza folla”. La stessa settimana ero andato a “La Scala” ad assistere alla prima del “Turco in Italia” dove cantava Alex Esposito che è un basso baritono originario di Madone, famosissimo. Ricordo che tornando da Milano col mio amico fisarmonicista Gigi Zonca cominciai a percepire qualcosa che accadeva di strano intorno. Fino a quel momento lì avevamo vissuto la Milano da bere».

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