I bambini a scuola raccontano Parigi
Ecco i pensieri in una scuola di Bergamo

«Quello che mi ha colpito di più è vedere i grandi piangere». Prendi una classe di terza elementare, fuori gli alberi con le foglie rosse e la nebbia di un autunno che ormai arrossa tutti quei nasi pieni di lentiggini. I bambini lo sanno cosa è successo a Parigi e nascondere i fatti di venerdì sarebbe anacronistico.

Ci sono la tv e i social media, ci sono le chiacchiere da bar, i racconti, ma soprattutto i discorsi di quei grandi di cui hanno fiducia. Quelli che hanno visto piangere in televisione, quelli che li hanno così colpiti. «Si piange quando si è tristi» spiega una maestra, spiega la mamma dalla cucina. Si piange perché il dolore è troppo forte. «Si piange anche dalla paura» risponde un bambino.

Hanno otto anni questi ragazzetti composti sui loro banchi, con l’insegnante che ha preparato la lezione tutto il fine settimana. «Perché bisogna dire la verità, spiegare i fatti, raccontarsi senza troppe edulcorazioni quanto capita in un mondo che non ha più confini definiti» spiega. Avere quindi il coraggio, in una società come la nostra dove si tende a proteggere sempre e comunque i bambini dalla sofferenza.

Raccontare però è anche una grande responsabilità ed è vero quanto dicono alcuni sociologi in questi giorni: le nostre nuove generazioni sono poco abituate al concetto di tragedia. Perché se chiediamo a un bambino di 8 anni cosa significhi, lui ti risponde al massimo «un brutto voto, un vaso rotto a casa…». Ma fuori dalle mura domestiche, dal parco pubblico, dal cortile di scuola? Fuori da lì cosa c’è? E allora è stato importante che molte famiglie bergamasche lunedì sera abbiano portato i propri bambini ad ascoltare il sindaco Gori, a vedere tutta quella gente con una candela in mano. A capire perché ci sono bandiere francesi che sventolano nel cielo. Vicino al nostro tricolore.

Bambini al riparo dal dolore? «Io li proteggo dal male» dice una mamma fuori da scuola. Ma siamo sicuri di poterci riuscire? Loro, i più piccoli, sono arrivati lunedì mattina a scuola pieni di storie da raccontare. Dei soldati «con i mitra per le strade, come quelli dei videogiochi delle guerre», con frasi che non sanno bene spiegare ma che hanno sentito dal papà: «Il terrorismo lo abbiamo da anni sotto il naso», «ormai è scoppiata la terza guerra mondiale» dicono con un po’ di saccenza infantile, quella che può avere un bambino di otto anni che non ha capito bene il mondo, che già parla di Santa Lucia e che pensa più che altro alla partita di pallone della domenica.

Ma Parigi non è lontana come quando si parla di Siria o di un Undici Settembre. «Terrorismo significa parlare di terrore, di paura. Ecco, io ho paura dei piranha: li puoi trovare nel mare, vicino a te, e mica lo sai che fanno del male. Poi invece ti attaccano e tu non fai più a tempo a scappare». Lo dice una bambina, e tu resti lì ad ascoltarla. «Magari è una domanda stupida, ma non capisco come fanno queste persone cattive a viaggiare nel mondo – gli fa eco un altro ragazzino, 7 anni e mezzo -. Con le armi poi… Come fanno ad avere tutte quelle armi? E tutti quei soldi. Perché i terroristi sono ricchi se i loro Paesi sono poveri?».

Bambini che prima di questi giorni non conoscevano la parola Islam, che faticano – giustamente – a capire come si possa uccidere in nome di Dio. Bambini che sanno rielaborare, con la purezza che manca agli adulti, con la semplicità che svela grandi cuori. Come le frasi scritte a scuola, ieri, in una classe di una IIIa B che si ferma a pensare, a cercare le parole: “Sono delusa da chi mi sta dimostrando che non apprezza la vita: ogni essere umano è un gioiello da custodire”. E poi: «Sono fortunato ad essere un bambino, i grandi non possono più fare nulla, mentre noi piccoli possiamo ancora fare qualcosa»; «Dico agli adulti, ai genitori: abbiate coraggio». Un compagno legge la frase appesa sulla porta, è di BergamoScienza: «Vi è un solo bene: la conoscenza, vi è un solo male: l’ignoranza».

Infine una domanda: «Ma il loro Dio è il nostro?» si chiede una ragazzina. Con il rischio di fare generalizzazioni, anche se, a ben pensarci, gli stessi adulti ne fanno, fin troppe. «Dio è quello buono che noi preghiamo, quello che ci ascolta dal cielo» dice allora un altro bambino. E i compagni citano Papa Francesco, perché lo conoscono, lo vedono in tv, riconoscono la sua voce e quel modo di parlare semplice che lo rende ancora più vicino al mondo dei piccoli: «Il Papa ha detto che non si può parlare di Dio per uccidere delle persone» spiega una bambina di 6 anni, prima elementare. Poi c’è il fratello, che risponde così senza fare una piega: «Vedrete che dal cielo, il loro Dio che è buono come il nostro, glielo dirà che stanno facendo del male ai bambini».

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