I mille trapianti, intervista a Ferrazzi
«Stesso spirito di squadra contro il Covid»

Al Papa Giovanni il risultato storico . Paolo Ferrazzi è il chirurgo che eseguì il primo intervento: «Bergamo un’eccellenza grazie alla lungimiranza del professor Parenzan».

Paolo Ferrazzi è ancora lì, in sala operatoria, dove ha passato 48 dei suoi 73 anni. Dal primo trapianto di cuore eseguito all’ospedale di Bergamo, 35 anni fa, alla direzione del centro di cardiomiopatia ipertrofica del policlinico di Monza. Una vita per i malati.

Dottor Ferrazzi, cosa ricorda di quella famosa notte del 23 novembre 1985?
«Ho un ricordo di grande serenità. Io allora avevo 38 anni ed ero un semplice assistente chirurgo. Raccontarlo ora mi fa ammirare ancora di più la figura di Lucio Parenzan, che lasciò a me un intervento così importante. Avevamo 120 giornalisti fuori dalla porta della sala operatoria, ma lavorammo con tranquillità. Nei giorni precedenti avevamo valutato due casi, uno più semplice e un altro urgente. Scegliemmo il più difficile, che ci darebbe preoccupazione anche oggi. Il paziente, Roberto Failoni, era grave. Stava morendo. Parenzan all’inizio mi prese per pazzo, poi però concordò anche lui. Andò tutto bene. La fortuna aiuta gli audaci».

Va bene la tranquillità 35 anni dopo, ma è possibile che durante l’operazione non abbia avuto un po’ di paura?
«Confesso un particolare, un terrore di pochi secondi. Ero stato negli Stati Uniti per imparare come eseguire un trapianto. Per il primo intervento mi ero fatto spedire tutto da Oltreoceano. Alla fine della sutura dell’atrio sinistro mi sono accorto che il filo era più corto rispetto a quello che avevo visto negli Usa. Invece di mandarmelo da 120 centimetri, me ne ritrovai uno da 80. Per fortuna bastava e avanzava, solo che lì per lì ho avuto un attimo di timore. Abbiamo controllato tutto e siamo andati avanti».

Certo che ci vuole coraggio ad affidare tutto a un giovane assistente chirurgo.
«Parenzan aveva organizzato tutto. È stato lui a stimolarmi. È come se avessimo fatto il trapianto insieme. Mi ha riempito d’orgoglio. Tutto l’ospedale ha collaborato. Una grande squadra. I primi trapianti hanno contribuito a far salire il livello fino ai traguardi di oggi. Dobbiamo dare atto alla lungimiranza di Parenzan e allo sforzo enorme fatto da tutto l’ospedale».

E dire che se non fosse per un meccanico incapace la sua vita, e quella di migliaia di pazienti, sarebbe molto diversa.
«Davvero (ride). Avevo 25 anni, laureato da poco, e gareggiavo in Formula 3. Durante quella stagione la macchina ebbe un sacco di guai. Mi dissi che sarebbe stato meglio fare il chirurgo. Arrivai a Bergamo in un giorno di tramontana. La vista di Città Alta dall’autostrada, una cosa meravigliosa. Al primo colloquio mi conquistò la simpatia del professor Parenzan».

Qual è il suo ricordo del suo maestro?
«Per me è stato tutto, anche dal punto di vista umano. Un vero pioniere. Credeva nei giovani. Nel tempo si è creato un legame molto stretto. Per molti anni ho visto più lui della mia famiglia. Nonostante non ci sia più, il suo è l’unico numero di cellulare che ricordo ancora a memoria. Lo chiamavo a tutte le ore del giorno e della notte».

Il più grande insegnamento trasmesso dal professor Parenzan?
«Non mollare mai. Dare sempre speranza al paziente. Lavorare con rigore e fantasia per cercare di uscire da situazioni difficili».

È vero che dopo il primi due trapianti per un mese cedette a lei il suo studio?
«Tutto vero. Dopo i primi due trapianti dovevo controllare il decorso senza potermi muovere e allora fece mettere un letto nel suo studio e mi disse: “Adesso tu stai qui”. Ho dormito lì per un mese senza quasi mai tornare a casa».

Quanti interventi ha fatto nella sua carriera?
«Siamo sopra gli 11 mila. E sui 300 trapianti. All’inizio i chirurghi facevano tutto, prelievo ed impianto».

Cosa è cambiato da allora?
«La tecnologia ha fatto grandi passi in avanti. Però l’attenzione nei confronti dei pazienti non è mai cambiata. Abbiamo tra le mani la vita delle persone. Tutti i medici che hanno lavorato e lavorano a Bergamo non l’hanno mai dimenticato».

Come ha affrontato questi mesi così difficili?
«L’emergenza coronavirus è stata una cosa terribile. La verità è che non si conosceva la malattia e siamo stati spiazzati dagli eventi. Poter fare poco per questi malati è stato psicologicamente molto pesante».

Cosa possiamo imparare da questa epidemia?
«Che la collaborazione tra i vari team è fondamentale. Il virus è una macchina da guerra. Possiamo batterlo con lo stesso spirito di squadra con cui abbiamo affrontato il primo trapianto nel 1985».

Che effetto le ha fatto vedere Bergamo travolta dal virus?
«C’è stata una grande risposta da parte della città e dell’ospedale Papa Giovanni. Bergamo è stata ammirevole. Io credo che la strada maestra sia l’unità di intenti di clinici e ricercatori. Ma devono stare tutti uniti. Sono rimasto colpito dalla grande solidarietà di ex studenti dell’International Heart School (di cui è direttore dal 2009, ndr) che hanno chiamato da tutto il mondo per chiedere se avevamo bisogno di aiuto. Alcuni di loro sono stati in fiera durante le settimane dell’emergenza. Una solidarietà che mi ha riempito il cuore».

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