Il voto europeo
pensando a Roma

Il voto europeo è sempre stato vissuto da noi come un test elettorale interno. Sia da parte del ceto politico che dell’opinione pubblica. A Strasburgo sono stati mandati per lo più o i perdenti su altri fronti o i fine carriera o, quanto meno, i panchinari. Non c’era da sorprendersi poi se gli elettori non si appassionavano alla partita, come puntualmente dimostrava la scarsa affluenza alle urne. Per quanto negli ultimi tempi lo scontro sull’Europa si sia infuocato, tutto lascia intendere che il 26 maggio si continuerà a votare per Bruxelles, ma si penserà a Roma.

Mai un voto europeo è stato tanto italiano. Dalle urne del 26 maggio tutti si aspettano grandi cambiamenti, anzitutto nei rapporti di forza elettorali interni alla maggioranza (la Lega è accreditata di un raddoppio del M5S) con la connessa minaccia, sempre più concreta, di una crisi di governo. La politica è una questione essenzialmente di potere e quindi è più che comprensibile che i partiti in vista delle urne concentrino tutti i loro sforzi sull’obiettivo di fare il pieno di voti. Cosa poi si farà, si vedrà – sembra un po’ essere il pensiero dominante. Al di là delle sicurezze ostentate, tutti - maggioranza e opposizione - si limitano a navigare a vista, in attesa di vedere se ci sarà tempesta o solo una leggera brezza.

La consultazione europea ha finito per questo motivo coll’assumere il carattere di mid term, di verifica cioè dello stato di salute del governo nazionale a un anno dal suo insediamento. Il verdetto atteso è relativamente semplice da prevedere per la Lega, forza consolidata, ben radicata nel territorio, dotata di una classe dirigente rodata (pur con qualche ombra, come si vede dal pasticcio Siri) e di una leadership indiscussa. Un orizzonte ben più incerto grava invece sui Cinquestelle. Questo non è stato per loro un anno qualsiasi. Ha rappresentato viceversa la loro vera prova del fuoco. Erano il partito del Vaffa, i nemici giurati della Casta e nel Palazzo sono entrati e si sono anche comodamente sistemati; vogliano o non vogliano, sono diventati parte del potere.

Il passaggio dall’opposizione al governo comporta sempre dei cambiamenti, delle correzioni rispetto alle facili promesse elettorali. I cambiamenti rischiano di essere addirittura traumatici quando al potere arrivano forze antisistema. Vien da chiedersi allora: il bagno di potere di quest’anno cosa ha comportato per il M5S? La risposta non può che essere: molti cambiamenti, alcuni destinati con ogni probabilità a essere irreversibili, altri invece passibili di nuovi aggiustamenti. Il cambio di passo più spettacolare si è consumato sul terreno del passaggio a una nuova forma di democrazia. Sul sito dei Cinquestelle si continua a leggere che il Movimento «riconosce alla totalità dei cittadini il ruolo di governo e di indirizzo normalmente attribuito a pochi». Si continua a parlare di democrazia diretta, ma non la si pratica, semplicemente perché non la si può praticare.

La democrazia senza mandato è un’utopia velleitaria in una società complessa. È avvenuto così che quest’anno il M5S, senza fiatare, ha finito col consegnare tutto il potere a un Capo (altro che «governo dei cittadini»). La svolta leaderistica consumata, senza peraltro aver ricevuto la sanzione legittimante del suo popolo, ha creato un leader indiscusso (Di Maio) ma dalle basi assai fragili, esposto perciò al vento mutevole dei favori elettorali; il che lascia intravvedere un serio pericolo di tenuta del Movimento nel caso di un eventuale (prossimo?) scacco elettorale. L’amico fraterno, e rivale, Di Battista ha già battuto un colpo.

Meno drastici, ma non meno significativi sono stati i cambiamenti intervenuti sul fronte dei contenuti. Si è consolidata anzitutto la vocazione populista del movimento. Populista, non tanto nel senso che al popolo si vogliano demandare le scelte, ma che è alle aspettative del popolo che si presta attenzione. Una prima conseguenza: «la decrescita felice», originaria bandiera ideologica agitata da M5S, buttata dalla finestra, sta rientrando dalla porta, inevitabile portato di una politica economica concentrata più sulla distribuzione che sulla produzione della ricchezza.

La doverosa attenzione rivolta ai perdenti della globalizzazione (poveri assoluti, disoccupati cronici, lavoratori con occupazione flessibile o con reddito insufficiente) unita alla promessa di una pronta riduzione massiccia e immediata del carico fiscale all’universo mondo ha finito per rendere ancor più esplicita la vocazione populista del movimento. Da ultimo, la rivalità con i fratelli/coltelli leghisti ha spinto i Cinquestelle a connotare il loro populismo sempre più a sinistra, con buona pace della stabilità e operosità del governo e delle velleità di rilancio nutrite dal Pd di Zingaretti. Con quali risultati generali per il Paese lo vedremo dopo il 26 maggio.

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