Moro: «Al Manaslu tornerò a dicembre
Dopo i 4 morti sul K2 giusto rientrare»

Simone Moro traccia il bilancio della sua 3 a rinuncia al colosso nepalese in inverno: «Dopo la morte dei 4 scalatori in Karakorum, tornare a casa è diventata ancora di più la priorità».

Ci proverà ancora a dicembre, per la quarta volta, perché ormai la scalata d’inverno del Manaslu, che lui stesso definisce «il più facile degli Ottomila», è diventata per Simone Moro quasi una questione personale. Appena rientrato dalla sua terza spedizione (con relativa rinuncia) sul colosso nepalese (8.163 metri), l’alpinista bergamasco «vede» già la sua prossima avventura: «Tra nove mesi riparto – dice –. E partirò all’inizio di dicembre, per avere il tempo di acclimatarmi nella valle del Khumbu e per decidere quale montagna salire, forse l’Ama Dablam, prima di arrivare al campo base del Manaslu il 21 e provare a sfruttare, per la prima volta, gli ultimi giorni di dicembre e primi di gennaio, quando il tempo è ancora bello e stabile».

Quest’anno a ritardare l’arrivo della spedizione sono state le lungaggini burocratiche dovute alla pandemia; una volta in corsa, la scalata si è presentata da subito molto più insidiosa del previsto: «Durante la fase di attrezzamento della via normale – racconta Moro – ci siamo imbattuti in tre crepacci che non è stato possibile superare. Abbiamo dovuto aprire una variante nuova per aggirarli e per farlo abbiamo impiegato 15 giorni. Il tempo era bello, ma soffiava un vento a 175 km/h, che ha sollevato una tenda di due quintali al campo base». Poi sono arrivate le tempeste di neve e la decisione di abbandonare l’impresa per la terza volta, dopo i tentativi andati a vuoto nel 2015 e nel 2019. «Non c’è niente da vergognarsi, se si rinuncia a una scalata – dice Simone Moro –. L’uomo, d’altronde, è programmato per fallire e quando scali una montagna in inverno, sai di avere solo il 15% di possibilità di farcela. Ormai ho metabolizzato le sconfitte, e forse è per questo che stavolta rinunciare mi è pesato meno, rispetto al passato».

Il maltempo, certo, ma sulla decisione di arrendersi al Manaslu è pesata come un macigno anche la tragedia di qualche giorno prima sul K2, dove sono morti 4 alpinisti in una spedizione di cui faceva parte anche l’italiana Tamara Lunger, grande amica di Moro: «È stata senz’altro l’invernale più tragica della storia – racconta l’alpinista bergamasco –. Dopo quello che è successo sul K2, tutte le attenzioni si sono spostate su di noi ed è a quel punto che ho sentito più forte la responsabilità di comportarmi nella maniera più conservativa possibile: tornare a casa è diventata ancora di più la priorità. E posso dire che la rinuncia di quest’anno è stata quella che ha destato meno chiacchiere e polemiche». L’annuncio del fallimento postato sui social da Simone Moro è stato visualizzato da oltre mezzo milione di persone, «e quando leggi un solo commento di disappunto – racconta l’alpinista – capisci che forse questa rinuncia, per come ci siamo comportati e per come l’abbiamo raccontata, farà scuola. Del resto, dobbiamo essere più consapevoli del fatto che i fallimenti possono essere anche più frequenti, perché ormai stiamo provando a superare limiti che nel tempo abbiamo spostato sempre più avanti».

La tragedia del K2 ha sconvolto anche la spedizione sul Manaslu: «Sono contento di non esserci andato – ammette Moro – anche se mi dispiace non essere stato insieme a Tamara in quei momenti così drammatici; ho cercato di starle vicino emotivamente come ho potuto, ma è un dramma che sta vivendo ancora adesso. Rinunciare si deve, in certe situazioni: la spedizione invernale è una scelta che dev’essere consapevole perché l’inverno è la stagione più inospitale di tutte, in Pakistan più ancora che in Nepal, e quest’anno al K2 c’erano, purtroppo, tanti inconsapevoli». Prima di dedicarsi alla nuova spedizione, Simone Moro – che nel frattempo ha già ripreso ad allenarsi – approfitterà di questi mesi per dedicarsi ai suoi elicotteri («l’altra mia grande passione») e al film che sta realizzando sull’alpinista Gino Soldà, insieme a Simon Messner, figlio dell’alpinista altoatesino Reinhold Messner. «Il mio alpinismo è frutto di un sogno solo ed esclusivamente personale – conclude – e non vuole essere la copia virtuosa di qualcosa che è stato già fatto. Scommettere su se stessi è una bella avventura; si deve sempre credere nei propri mezzi ed essere coerenti con le proprie scelte».

© RIPRODUZIONE RISERVATA