Al Museo Caffi c’è Moby Dick
In Città Alta uno scheletro di 9 metri

Novità in casa Caffi. Uno scheletro di un capodoglio femmina di 9,70 metri se ne sta appeso al soffitto della nuovissima sala dedicata ai mammiferi marini del Museo di Scienze Naturali.

Novità in casa Caffi. Uno scheletro di un capodoglio femmina di 9,70 metri se ne sta appeso al soffitto della nuovissima sala dedicata ai mammiferi marini del Museo di Scienze Naturali.

Imponente, smisurato, maestoso: un animale che ha da sempre condizionato l’immaginario collettivo, con una serie di intrusioni letterarie. Spesso finendo per comparire, erroneamente, alla voce balena, cadendo in una trappola comune: ma la differenza c’è tutta, considerando che il capodoglio è un odontoceto, quindi ha i denti, quindi è un predatore. L’indiscutibile fascino che porta in dote è un retaggio dei tempi antichi, quando la caccia al capodoglio andava di moda, soprattutto perché dal suo olio si ricavavano le candele (mica una bazzecola, quando l’elettricità non si sapeva manco cosa fosse) e i suoi denti venivano intagliati e collezionati a ogni latitudine (Jfk era un grande appassionato, tanto che la First Lady inserì un dente decorato all’interno della sua bara).

Quella del Caffi, nella fattispecie, è una ragazzina di circa quindici anni (parlando seriamente, una sub-adulta, considerando che la vita media non è tanto diversa da quella umana, assestandosi intorno ai settant’anni), il cui peso si aggirava sulle dodici tonnellate quando, una mattina di primavera del 2008, si spiaggiò sulla costa toscana. Non una rarità assoluta, dato che si tratta di un evento che capita in media una volta all’anno, con il picco del 2009, quando in pochi giorni, in zona Gargano, si spiaggiarono ben nove capodogli, forse perché mandati in tilt dagli ecoscandagli delle barche.

Da quel giorno di maggio, si è messo in moto un complicato ingranaggio che ha trasportato la macchina del tempo fino ai giorni nostri, ma che in realtà era già stato ideato dodici mesi prima: al Caffi, infatti, è nato prima l’uovo della gallina, se è vero che il progetto aveva iniziato a prendere forma dopo un confronto tra il direttore Marco Valle e il professor Luigi Cagnolaro, padre della cetologia italiana. «I cetacei sono tra i mammiferi più loquaci, nel senso di quelli maggiormente in grado di fornire una testimonianza evolutiva», illustra Cagnolaro, servendo l’assist per Valle, che aggiunge: «Non si tratta solo di un animale affascinante, ma è anche un veicolo per spiegare l’evoluzione: osservando lo scheletro dell’arto anteriore, si nota quanto esso sia simile alla mano umana. A tutto ciò, va aggiunta la valenza conservativa, in quanto il capodoglio è una specie a rischio, a causa della caccia spietata che è durata fino a metà del secolo scorso».

Ora, il capodoglio troneggia maestoso nella nuova sala dei mammiferi marini, che accoglie anche altri ospiti, dalla novità degli scheletri di otaria e di tursiope (altre testimonianze di evoluzione) a vecchie conoscenze come la Ritina di Steller (scoperta da Steller e Bering con il passaggio a Nord-Est, prima di venire sterminata in pochissimo tempo) o la Foca Monaca, custodita all’interno museo da più di cento anni. Non ce ne vogliano gli altri, ma il vero re della sala è il maxi-cetaceo, uno dei sei esposti nei musei italiani (l’unica altra femmina si trova a Calci, Pisa): «Si tratta di un progetto importante – sottolinea Marco Valle –, che abbiamo portato avanti in collaborazione con altri istituti, dall’Università di Siena a quella di Padova, passando per il Museo di Storia Naturale di Milano. Inoltre, si sono rivelati fondamentali il contributo di Regione Lombardia e Fondazione Banca Popolare di Bergamo e il supporto tecnico di Impresa Pandini e Italcementi».

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Eco di Bergamo La novità del Museo Caffi