Guerre e missioni di pace in un clic
Racconto dei fotografi che rischiano la vita

Parlano due combat camera, fotografi al fronte in Afghanistan, Bosnia, Sudan, Kosovo e Libano. «Documentiamo i teatri dei conflitti. La paura ti permette di non sbagliare, ma avvertiamo il sibilo dei proiettili».

Vincere il Premio Pulitzer, emulare Robert Capa, scattare la foto del secolo. Nulla di tutto ciò. I combat camera, i fotografi al seguito delle truppe nei teatri di guerra non inseguono queste aspirazioni.

E forse come Capa, che nel ‘47 fondò la Magnum Photos, sperano «come fotografo di guerra di rimanere disoccupato per il resto della mia vita». La fotografia, talvolta, vale più di un editoriale. Alcune immagini dei combat camera hanno lasciato un segno indelebile nella storia. Altre sono entrate nell’immaginario collettivo: facce sporche di polvere e sudore, corpi martoriati, villaggi rasi al suolo. Altre hanno contribuito a formare movimenti di opinione. Una foto può cambiare molte cose: un’idea, un orizzonte. Potenza del clic e di chi sta dietro la macchina fotografica. Le foto scattate in teatri di guerra hanno una forza dirompente: avvicinano il pubblico alle atrocità, danno corpo ai racconti. È accaduto durante i conflitti bellici , accade oggi.

Dietro i combat camera ci sono storie di militari, di giovani che sul fronte arrivano bardati di elmetto e giubbetto antiproiettile, armi e un altro fardello di macchine fotografiche, obiettivi, batterie. «Nulla di eroico – sottolineano – non siamo Rambo». Anzi testa sulle spalle e occhio vigile. Abbiamo incontrato due di loro nel sud del Libano, due caschi blu italiani della missione Unifil. Sono nel Pio (Press and information office) alla base di Shama, un tiro di schioppo dalla Blue Line, il confine con Israele, che rischia di giorno in giorno di diventare torrido. Qui lavoranoil ten. col. Marco Amoriello 46 anni e il cap. magg. capo Daniele Mencacci 35 anni (fotografo e videomaker) entrambi di Pisa e Beppe Firmani, cap. magg. capo, 42 anni, di Pino sulla Sponda del Lago Maggiore (Varese). Firmani ha due figlie – Serena di 15 anni e Aurora di 7 – ed è alla sua 11ª missione. «Bosnia, Afghanistan, Sudan, Kosovo, Albania, Libano, ormai non le conto più». È combat camera in prima linea da anni. Le sue foto sono drammaticamente vere, trasmettono stati d’animo, fatica, paure, emozioni forti.

Firmani è tornato a casa per le feste natalizie, ma dal Libano, dove tornerà presto, è partito con una lacrimuccia. Laggiù ha lasciato una cagnolona, Shama, la mascotte: «Ci siamo adottati a vicenda», conclude il varesino, combat camera di roccia, dal cuore tenero. Del resto questo lavoro lo ha portato spesso anche a fotografare i villaggi più remoti, bambini soli, gente che vive nella miseria dando volto a un’umanità davanti alla quale spesso in tanti chiudono gli occhi. A dar man forte a Firmani c’è il cap. magg. capo Daniele Mencacci specializzato nei video. Sposato con Florinda, due bimbi Filippo di 13 anni e Mya di 5 anni, dopo 6 anni trascorsi al Centro addestramento di paracadutismo di Pisa, dal 2010 ricopre l’incarico di fotografo. «Sinora ho svolto 3 missioni all’estero – dice -: nel 2007 in Libano nella compagnia di paracadutisti che operava a Shama nella missione Unifil Leonte, nel 2011 in Afghanistan come combact camera, nel 2017 ancora in Libano».

E la paura? «È una sensazione normale che sarebbe molto grave non provare, sarebbe sinonimo di incoscienza. La paura ti fa stare vigile nei momenti difficili e ti fa agire con prudenza. Spesso gli errori derivano dalla troppa sicurezza. Generalmente, si ha paura di quello che non si conosce, allora, in particolare per noi che facciamo il lavoro del soldato, la paura si affronta con la preparazione e l’addestramento, che viene fatto sempre in modo più aderente possibile alle situazioni reali che potremmo trovare ad affrontare». «Certo, vivere esperienze così forti come quelle che possono capitare a chi fa il nostro lavoro, ti fa cambiare radicalmente la scala delle priorità della vita. Alla fine capisci che quello che veramente conta nella vita, è quello che hai dentro – conclude Mencacci -.

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