L’alpinista Mario Curnis: «Dopo tutti i lutti non si può dubitare delle vaccinazioni»

«Il Covid ci ha insegnato la fragilità e quanto la vera ricchezza sia la solidarietà».

Il suo lockdown era finito anche sulle pagine del National Geographic. Raccontato dalle immagini di Monika Bulaj, il periodo di isolamento che l’alpinista Mario Curnis - 85 anni appena compiuti e una vita tra le montagne più alte del pianeta: dall’Everest con l’amico Simone Moro all’Adamello, dal Lhotse alle cime della Patagonia - aveva trascorso con sua moglie Rosanna nella baita di San Vito dove vive, sopra Nembro, era diventato il simbolo della capacità di resilienza della terra più colpita dal Covid. Là dove si erano contati centinaia di morti, c’erano uomini come lui che comunque non si scoraggiavano e guardavano con fiducia al futuro e alle infinite potenzialità della scienza, in attesa di nuove terapie, ma soprattutto di quel vaccino che sarebbe arrivato a tempo di record.

Curnis a che punto è lei con le vaccinazioni?

«Ne ho fatte due dosi e sono in attesa della terza che farò al più presto».

Ha mai avuto qualche dubbio sulla necessità di farlo?

«Mai. Come fai ad averne dopo che, nel 2020, a Nembro hai visto morire 100 persone in un mese. E poi se c’è una cosa che ho imparato nella vita è che ognuno dovrebbe occuparsi di ciò che conosce: io sono stato alpinista, ma di mestiere ho fatto il muratore. Posso dare consigli su un’ascensione in montagna, posso insegnare ad altri a costruire un edificio, ma non mi permetterei mai di contraddire i ricercatori che hanno messo a punto i vaccini: bisogna avere fiducia nella scienza».

Ma allora come mai c’è gente che ha tante perplessità?

«Anche se uno più uno fa due, purtroppo c’è sempre qualcuno che sostiene che fa tre. Io posso solo dire che se io e mia moglie siamo ancora vivi, nonostante i problemi di salute affrontati, lo dobbiamo proprio alla scienza e di questo sono infinitamente grato a chi contribuisce a sostenerla. Ho sempre creduto nel progresso, forse perché la mia era una famiglia povera e fino ai 17-18 anni ho conosciuto la fame, quella vera: per questo ancora oggi riesco ad apprezzare fino in fondo ciò che negli scorsi decenni siamo riusciti a costruire per migliorare la qualità della vita di chi vive nel nostro Paese, ma anche nel resto del mondo».

Una volta però la gente sembrava nutrire più fiducia verso chi deteneva certe competenze: come mai adesso questo sentimento sembra essersi smarrito?

«Ripeto: perché c’è poca umiltà. Personalmente andando in montagna, mi sono sempre sentito una parte piccolissima di qualcosa che è immensamente più grande. E questo insegnamento lo custodisco con grande cura».

Ecco, da alpinista ha sempre coltivato anche un grande rispetto per la natura. A volte si contesta proprio la fragilità dell’equilibrio tra quest’ultima e la scienza: come si fa a garantirlo?

«Anche in questo caso credo che il segreto sia porsi con un po’ di umiltà e rispetto. Io sono qui a ridosso di un bosco, osservo meravigliato ciò che mi trovo di fronte. Perché ogni pianta fa il suo dovere, fa tutto quello che può fare per garantire la sua sopravvivenza e la nostra: offre ossigeno, frutti, legna. Uno spettacolo. Dico la verità: quando ne taglio una, la guardo e chiedo scusa. Credo che anche la convivenza tra scienza e natura dovrebbe basarsi su un atteggiamento di questo genere».

Cosa ha significato per lei e sua moglie immunizzarsi?

«Innanzitutto ci sentiamo più tranquilli perché siamo ovviamente più coperti dal virus, ma a motivarci è stato soprattutto il senso di responsabilità nei confronti del resto della nostra famiglia e, più in generale, della comunità. Se adesso ci sono più persone sopravvissute al Covid è anche per merito di chi si è vaccinato. Sinceramente sono orgoglioso di averlo fatto perché è anche un gesto di altruismo».

E di mezzo c’è anche un pizzico di dovuto coraggio: non trova?

«Certo che sì, ritengo che i vaccini siano sicuri, ma anche se ci fosse un piccolo margine di rischio in questa situazione sarebbe giusto farsene carico. Un po’ come nell’alpinismo, un’alea di imponderabilità c’è sempre, ma non per questo si è mai smesso di praticarlo: con buon senso, prudenza, ma anche voglia di tirarsi su le maniche e fare qualcosa di buono».

Cosa ci ha insegnato il Covid, qual è la lezione?

«Ci ha insegnato tanto, ci ha insegnato la fragilità. E soprattutto ci ha fatto capire quanto la vera ricchezza sia rappresentata dalla solidarietà: solo quando fai del bene a un’altra persona puoi sentirti davvero realizzato. Durante la pandemia ne abbiamo avuto moltissimi esempi. Anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo sempre cercato di fare tesoro di questa regola e per 14 anni abbiamo accolto in casa nostra, dandogli una mano, una persona che era in difficoltà e per questo veniva emarginata. Una cosa che non ci piaceva, ci dava molto fastidio, così siamo stati felicissimi di aiutarlo: abbiamo certamente ricevuto più di quanto abbiamo dato».

Ma le sembra che si stia recuperando un po’ di normalità?

«Direi proprio di sì. Noi vediamo molti amici, la nostra casa è sempre aperta e la gente, con tutte le precauzioni del caso, non ha più paura di venirci a trovare. Il merito va soprattutto ai vaccini».

Hanno avviato anche la campagna dei più piccoli: cosa direbbe ai giovani che non si vogliono vaccinare?

«Direi di pensare a se stessi, ma soprattutto ai loro amici, ai loro genitori e ai loro nonni. Devono farlo anche per loro. Io non sono in grado di fornire dati scientifici: ma da quando ci si vaccina, tutti i decessi a cui abbiamo assistito nel 2020 non li vedo più. E questo dovrebbe bastare».

Leggi le ragioni per dire sì di Alberto Mantovani, presidente della Fondazione Humanitas per la Ricerca.

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