Pasotti: «Mia zia è morta da sola per il Covid. Non deve accadere più»

Il famoso attore bergamasco ricorda il dramma e invita tutti «a vaccinarsi per una responsabilità collettiva»

«Una gioia infinita, una liberazione: quando due settimane fa abbiamo presentato la stagione di prosa mi è sembrato un mezzo miracolo, e penso che sia un sentimento condiviso per tante persone che ruotano intorno al mondo del teatro».

Giorgio Pasotti ormai è un attore conosciutissimo, dai successi al cinema con «L’ultimo bacio» di Muccino a «La grande bellezza» di Sorrentino, alle popolari fiction televisive come «Distretto di polizia» fino alle performance teatrali. Da quest’anno è anche il direttore artistico del Teatro Stabile d’Abruzzo e da poco ha presentato la sua prima stagione di prosa a L’Aquila.

Un anno particolare per il teatro che riprende vita dopo la pandemia, forse uno dei settori che ha più sofferto della chiusura prolungata dovuta al coronavirus.

«Per chi lavora in teatro è stata doppiamente dura: non solo la paura del virus e i timori per la salute propria e dei cari ma anche lo stop forzato di ogni attività. Ripartire è stata una grande gioia, una liberazione ed è stato possibile grazie alla campagna vaccinale e a chi vi ha aderito. In poco meno di una settimana il cartellone è andato tutto esaurito. C’erano nomi di richiamo certo ma soprattutto c’è stata la grande risposta del pubblico, il desiderio della gente di tornare a teatro, agli spettacoli dal vivo».

Per lei Pasotti, bergamasco trapiantato a Roma ma con legami saldi con la città d’origine dove vivono ancora i suoi genitori e la famiglia, cosa ha significato la campagna di vaccinazione anti Covid?

«Soprattutto un atto di responsabilità collettiva verso gli altri. Ma anche un gesto d’affetto che esprime vicinanza verso chi ha pagato un doppio prezzo al Covid, quello della malattia e della morte e quello della perdita del lavoro».

Quando si è vaccinato?

«Mi sono vaccinato d’estate, a luglio, come molti della mia generazione. E sono pronto a mettermi in lista d’attesa per la terza dose a gennaio».

Ha avuto delle remore a fare il vaccino?

«Mi sono informato come hanno fatto altri immagino attraverso i media e consultando alcuni medici. Mi sono fidato di loro. Non è stato certo un atto fatto a cuor leggero ma mi sono fidato di chi ne sa più di me e soprattutto lo trovo un atto di responsabilità nei confronti della collettività in cui vivo per garantire la libertà comune e ritrovare il senso della comunità».

Lei ha una figlia di 11 anni, pensa di vaccinarla appena possibile?

«Ho sperato che, per il bene dei nostri figli, per preservarli, tutti gli adulti, genitori e nonni, facessero la loro parte. Se tutti ci fossimo vaccinati forse avremmo potuto evitare ai più piccoli questo passo. Il mio invito ad aderire alla campagna vaccinale è soprattutto pensando alle nuove generazioni: faccio appello a un senso di coscienza e di unità di intenti verso i più piccoli. Se tutti si vaccinano forse non sarà necessario chiedere a loro di fare questo passo al posto nostro. A gennaio mia figlia compie 12 anni e la vaccinerò, non posso fare altrimenti: condizionerei la sua vita più di quanto già abbiamo fatto fino a oggi».

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Ha degli amici che non si vaccinano? Che cosa gli dice?

«Sì ho dei cari amici che hanno scelto di non vaccinarsi. Non posso che rispettare la loro scelta. Non cerco di convincerli ma racconto loro quello che è successo a Bergamo. Io vivo a Roma da tanti anni e ho vissuto nella capitale il primo lockdown. La percezione di quello che accadeva nel Nord Italia, nella mia città d’origine, per molti qui era attenuata. Ma io ho vissuto quei mesi con un senso di ansia e di angoscia profonda: in primis per i miei cari, mio papà e mia mamma che vivono a Bergamo. Avevo un forte senso di impotenza e seguivo i notiziari h24».

La sua famiglia è stata toccata anche dai lutti…

«Sì mia zia, la moglie del fratello di mia mamma, è morta di Covid e la sua salma è stata trasportata dai camion militari nella colonna dei mezzi che sfilavano dal cimitero monumentale. È morta da sola in ospedale e poi è stata trasportata su un montacarichi in un luogo reso noto a mio cugino soltanto dopo due giorni. Alcuni miei amici cari di Bergamo sono stati male o hanno perso i loro genitori. Non deve più succedere. Vivo a Roma ma mi sento profondamente legato a Bergamo e so che è una città che è rimasta segnata nell’intimo dalla pandemia. Credo che la sofferenza e la paura siano ancora percepibili anche se prevale la voglia di ripresa. C’è un pudore dei sentimenti, il silenzio rispettoso su quanto è accaduto che è ancora più rumoroso. Penso a una generazione scomparsa che non ha potuto tramandare ai nipoti il suo sapere, le sue tradizioni e conoscenze. Basterebbe questo per correre a vaccinarsi».

Il 2020 è stato anche l’anno dell’uscita del suo secondo film da regista, «Abbi fede», che non è mai circolato nelle sale proprio per la chiusura durante il lockdown…

«Nonostante il titolo di buon auspicio non è mai uscito sul grande schermo. Sono stato fortunato perché è stato selezionato da Rai Cinema tra le quattro pellicole che sono state trasmesse in home video su Rai Play e ha così raggiunto un pubblico nuovo rispetto a quello che frequenta le sale cinematografiche. È stato comunque emozionante».

È preoccupato per il futuro?

«Sì, sono molto preoccupato per la situazione attuale, i casi continuano ad aumentare e chiedo a tutti di riflettere su quello che abbiamo vissuto, sulle conseguenze che ha avuto sulle nostre vite a tutti i livelli, su quelle dei nostri figli. Posso capire chi non si vaccina, ma non condividere. Tutti abbiamo fatto un sacrificio per il bene di tutti, mi aspetto che chi tiene alla nostra comunità e alla vita collettiva faccia altrettanto».

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