La moda sostenibile? Anche bella
Il progetto orobico di Giusy Bettoni

Gira il mondo e lo fa con l’orgoglio bergamasco, la testardaggine di una tipetta dai ricci ribelli che non molla la presa molto facilmente. La trevigliese Giusy Bettoni nel 2007 ha fondato C.l.a.s.s., piattaforma che offre a designer, buyer, media e operatori del settore una vetrina di moda ecosostenibile.

Gira il mondo e lo fa con l’orgoglio bergamasco, la testardaggine di una tipetta dai ricci ribelli che non molla la presa molto facilmente, e la competenza di una che quelle stoffe le conosce anche senza guardarle. A lei basta accarezzarle pochi secondi, sentirne il peso, facendosele scivolare sui polpastrelli. È così che in fondo è nato nel 2007 C.l.a.s.s. (Creativity Lifestyle and Sustainable Synergy), network internazionale multipiattaforma che offre a designer, buyer, media e operatori del settore una vetrina di moda, di tessuti e materiali creati utilizzando le tecnologie più sostenibili e green possibili.

A idearlo è stata proprio Giusy Bettoni, che lavora nel tessile da oltre 30 anni, iniziando giovanissima dopo che Treviglio ha iniziato a starle stretta tanto che, con un diploma linguistico, si è buttata in uno showroom internazionale che promuoveva la fibra del cotone.

Come si fa a diventare un’esperta di tessuti?

«Lavoravo per questa realtà: io dovevo occuparmi della comunicazione, ma per saperne parlare dovevo conoscere gli ingredienti della mia “materia”. Per arrivare a quel prodotto finito e a quelle performance, dovevo conoscere la filiera».

Che l’ha così portata a scoprire un mondo fatto di tessuti ecosostenibili ma anche innovativi.

«Tessuti hi-tech, tessuti che nascono da materia riciclata, riconvertita o da risorse rinnovabili. In particolare alla fine degli anni Novanta la tecnologia ha fatto un salto da gigante: penso ai nuovi biopolimeri, ai tessuti che nascono dalle proteine del latte e della soia, ma anche dal bambù e dal carapace del granchio. Ed è proprio la tecnologia che ci aiuta a mantenere la naturalezza del tessuti e a ridurre l’impatto ambientale quando si lavorano i materiali».

Esperta di tessuti ma anche a posizionare il prodotto. È così che si arriva a C.l.a.s.s.?

«Da qui il senso di C.l.a.s.s.. La capacità di parlare al consumatore significa capire le sue esigenze. Questo perchè quando si parla di moda sostenibile il consumatore è scettico».

Ci spieghi meglio.

«Si pensa a una moda senza forma né colori. Senza stile. Invece la moda sostenibile in cui credo è sì performante, innovativa ed eco, ma anche bella e contemporanea. La reticenza è dei clienti finali, ma parte anche dai buyer».

Partiamo dal principio: cosa significa per lei innovazione?

«Significare innovazione responsabile, ossia utilizzare la tecnologia per mantenere la naturalezza del tessuto con altissime performance. Rispettando l’ambiente e l’esigenza di estetica propria dell’utilizzo moda».

C.l.a.s.s. è questo?

«Presuppone qualcosa di bello, è un portale dove tutti i tessuti raccolti arrivano da aziende che spingono sulla sostenibilità, partendo dal made in Italy. Ci sono i colori, le fantasie, e c’è uno studio dei tessuti che rispondono ai canoni di stile e bellezza dei designer. Che creano poi la moda».

E la moda, cos’è per lei?

«Bellezza, innovazione e sostenibilità. E aggiungerei contemporaneità».

Aziende bergamasche?

«In tutto, all’interno di C.l.a.s.s., ci sono ora una quindicina di realtà. Principalmente sono italiane, c’è qualche bresciana. Bergamasche non ancora anche se collaboriamo con interesse con Radici. Inoltre non manca qualche azienda europea: tra queste interessante una realtà di Oslo con produzione responsabile in Cina per la creazione di un nuovissimo tessuto dal bambù rigenerato Monocell».

Obiettivo di tutto questo?

«Lo spirito di C.l.a.s.s. è imprenditoriale, anche perchè io stessa ho una visione della moda molto pragmatica. Deve sì far sognare, ma deve essere sostenibile. Deve essere bella, ma deve poter andare anche in lavatrice, essere stirata, asciugare velocemente. La moda è un pezzo della nostra vita: se all’ambiente non crea danni, significa che non crea danni a noi stessi. E questi tessuti vengono scelti e creano un ciclo di business».

Quindi quali sono i tessuti che fanno la moda di C.l.a.s.s.?

«Oltre ai naturali e organici, come la lana o la seta, il cashmere, il cotone o il lino e la canapa, ci sono quelli rigenerati e riciclati made in Italy: i tessuti che contengono per esempio Newlife (filo che deriva dal riciclo di bottigliette di plastica, ndr) o la lana rigenerata del distretto toscano. Infine i tessuti rinnovabili e innovativi: dal modal al micromodal, ma anche tessuti che sorgono dalle alghe, dalla soia, dalle cellulosiche rigenerate. E non dimentichiamo che si tratta di materiali che hanno un basso impatto ambientale e, tra l’altro, alcuni di questi sono antibatterici e migliori per essere a contatto con il nostro corpo».

Un lavoro di ricerca e selezione che ha appassionato anche la «green» Livia Firth...

«Con Livia abbiamo iniziato a collaborare su due fronti. Da una parte la supportiamo per i tessuti per realizzare i suoi abiti, che sono finiti sul Red Carpet degli Oscar più volte, disegnati da grandi firme della moda internazionale. Inoltre dal 2012 mi sono unita al “Green Carpet Challenge” di Livia per creare un progetto che unisce glamour a etica, per accrescere la visibilità dello stile sostenibile agli eventi di più alto profilo a livello globale».

E così con C.l.a.s.s. ha supportato stilisti come Armani a Dolce e Gabbana...

«Ma non solo, la lista è lunga: ci sono anche Gucci e Stella McCartney, e continui sono gli scambi di studi e consulenze con colossi come H&M o nomi emergenti quale per esempio Marimekko. Inoltre la rete che si è formata con le celebrities ha dato vita a un ciclo virtuoso. L’obiettivo, alla fine, è sempre lo stesso».

Moda sogno sostenibile?

«Infatti, e ci credo davvero. È come ha detto una volta Livia: i tessuti hanno una funzione e il loro ciclo di vita deve essere responsabile e sostenibile, per il nostro bene. I vestiti che indossiamo ci fanno portare addosso le storie di chi li ha fatti. Pensiamoci»,

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