Ogni vita un racconto / Bergamo Città
Mercoledì 29 Ottobre 2025
Morire, un tempo lo si imparava da piccoli
Gli esperti invitano alla chiarezza: parlare di morte ai bambini non li traumatizza, ma li aiuta a capire la vita. Evitare l’argomento genera paura e insicurezza emotiva nelle famiglie.
Nel secolo scorso era comune portare i bambini a fare visita ai morti e ai funerali, l’unico limite d’età era dato dal «sapersi comportare». I morti erano vegliati in casa e nelle chiesine di paese, più che nelle camere mortuarie degli ospedali o nelle case del commiato, ed erano «accessibili» anche ai bambini. Era un’abitudine, dopo il catechismo, andare a casa dei morti a recitare il rosario.
Quanti bambini, oggi, possono dire di avere visto un morto «dal vivo», senza essere stati coinvolti in vicende tragiche? Quanti hanno vissuto gli ultimi giorni di vita di una persona cara? Quanti sono portati ai funerali dei loro nonni?
Philippe Ariès, uno dei maggiori storici francesi del XX secolo, nella sua «Storia della morte in Occidente: dal Medioevo ai giorni nostri» racconta come il rapporto con la morte sia cambiato nel corso delle epoche, rispecchiando l’approccio di una certa società verso la vita. Attraverso lo studio di testi letterari, documenti, iscrizioni tombali e testamenti, Ariès inizia la propria analisi dal Medioevo, quando l’intera esistenza era vista come una lunga preparazione alla fine: la morte era un evento familiare, da vivere «nel proprio letto», che vedeva il morente come il protagonista di una cerimonia pubblica. Anche i bambini venivano portati ad assistere, come tutto il resto della comunità. Ariès, che scrisse il suo saggio nel 1974, descrive come la morte sia diventata nella nostra società tecnologica un tabù che si preferisce allontanare e negare. Chissà cosa aggiungerebbe a distanza di 50 anni.
Oggi non è per nulla scontato che bambini e ragazzi possano vedere i corpi dei loro nonni morti, per la maggior parte delle persone il primo vero lutto della propria vita. Si teme che lo spettacolo sia troppo forte, non si sa cosa possano capire, si ha paura di traumatizzarli e si preferisce che «li ricordino da vivi». Molto dipende dall’età del bambino, che a 2 anni non comprende il concetto di morte, ma già tra i 6 e i 9 anni è in grado di capire che è definitiva, anche se può averne una comprensione emotiva confusa. A questa età nasce anche la paura per la morte delle persone amate, per cui è tipico che un bambino tema la morte dei genitori e chieda rassicurazioni al riguardo.
Oggi le linee guida degli psicologi invocano chiarezza quando si parla di morte con i bambini, superando l’ipocrisia (o la delicatezza, dipende dai punti di vista) di espressioni come «se ne è andato», «è scomparso», «si è addormentato», «è partito per un lungo viaggio». Sono modi di dire che creano confusione e la confusione genera paura (che un proprio caro non possa allontanarsi senza morire, o scambiare la morte col sonno). Inoltre si è diffusa la consapevolezza che molto della reazione dei bambini dipende dalla stabilità emotiva del genitore o dell’adulto di riferimento: se sa mostrarsi sereno, anche nel dolore, il bambino ne è rassicurato.
Quando la morte era una questione per preti, più che per psicologi, le cose stavano diversamente: morire era un’arte, esistevano anche dei libri di spiritualità dedicati, detti ars moriendi. Un’arte che i bambini apprendevano dal vero, guardando morire i vecchi e i meno vecchi della propria famiglia, ammessi al capezzale dei moribondi. Nella cristianità la «buona morte» è una delle aspirazioni più legittime del devoto e i riti della tradizione, appresi fin da piccoli, creano comunità e aiutano ad «addomesticare» la morte. Pur se spaventati dalla morte, i bambini sviluppano una curiosità per aspetti che riguardano i riti funebri e possono porre molte domande.
Il fascino che anche oggi esercitano questi temi sui bambini è chiaro nella partecipazione alla festa che oggi chiamiamo Halloween. Al di là del nome forestiero è una tradizione presente nel folklore di tutte le regioni italiane. Nei giorni che vanno dalla Vigilia di Ognissanti a San Martino (11 novembre) sono da sempre presenti, o almeno lo erano fino a pochi decenni fa, tutti gli elementi costitutivi della festa, improntata sulla celebrazione di un «ritorno dei morti». C’erano i riti di accoglienza per i defunti, i dolci tradizionali dal nome macabro, le questue dei bambini, i racconti terrificanti e perfino le zucche intagliate, come ben raccontano Eraldo Baldini e Giuseppe Bellosi nel volume «Halloween. Origini, significato e tradizione di una festa antica anche in Italia». Rimane degno di nota quanto ai bambini piaccia questa ricorrenza: anche questo ci dice qualcosa del bisogno dei bambini di confrontarsi con il mistero, la paura, la morte.
Giovanni Zanovello: «Sono vissuto lavorando più per istinto che per dovere»
La storia del maestro Giovanni Zanovello è raccontata da Carmen Taborelli sulle pagine de «L’Eco» nel 1999
(Foto di Archivio Eco)
Un giorno scoprì una cassa piena di libri. Li aveva abbandonati, nella casa salesiana di Treviglio, un chierico che aveva sostenuto gli esami di maestro. Zanovello domandò: «Che libri sono? Se li studio e poi faccio gli esami, posso diventare maestro anch’io?». Divenne così lo “splendido” Maestro.
Ha riempito la vita di molti ex allievi e ha costruito una storia educativa. Carattere forte, severo, rigoroso. Pretendeva precisione e completezza. Sapientemente traghettava i suoi scolari dalla 5^ elementare alla prima media. Memorabili le sue sfuriate e i castighi impietosi: una preghiera copiata più volte, uno scapaccione salutare, qualche bacchettata sulle mani data al più discolo e da questi taciuta ai propri genitori per evitare il supplemento con interessi. E quando occorreva, gridava davanti a tutti: «Forza, studiate, imparate, non dovete restare asini; la vita vi aspetta e vi dovete preparare. Non lasciatevi cogliere in contropiede!».
Ha preparato davvero bene i suoi allievi. Li ha preparati non soltanto per la promozione agli esami finali, ma all’impegno, all’onestà, alla vita. Durante le partite di calcio, il Maestro stava sempre sul limitare del campo. Esortava gli allievi-giocatori, incitava ora una squadra ora l’altra. Si univa ai suoi ragazzi nelle esclamazioni più coinvolgenti, nelle varie sorti del gioco, specie quando si trattava di un goal. Poi c’era quel soprannome, “il Vecchio”, che si era appiccicato addosso e che si teneva stretto come il vestito, la cravatta e il grembiule neri. Al di là dell’età, quel soprannome stava sicuramente ad indicare la saggezza che lo ha accompagnato per tutta la vita. Il Maestro dispensava alcuni studenti dalle lezioni e li metteva nei banchi, in fondo alla classe, a rilegare i libri con refe e colla fatta con acqua e farina bianca. Si era negli anni ’42-43, in pieno tempo di guerra. I libri andavano rilegati perché potessero servire anche ad altri e perché niente andasse perduto. «Ringrazio – scrisse nel suo testamento spirituale - e chiedo perdono a tutti i miei poveri scolari che hanno avuto il coraggio di sopportarmi. Sono vissuto così lavorando più per istinto di natura che per dovere».
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