Oreste Frecchiami: artigiano, arrotino e poeta

Nato a Treviglio alla fine dell’Ottocento, affiancava al proprio mestiere la passione per lettura e scrittura. Teneva un diario sul quale ha raccolto storie, vizi e virtù dei suoi compaesani.

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A Treviglio, nella metà del secolo scorso viveva un artigiano assai singolare che il giornale così descriveva: «Vicino alla settantina, ingualdrappato in un cappotto liso e corto sopra il ginocchio, Frecchiami vende falci, badili, zappe, martelli e chiodi ai contadini; fa l’arrotino e affila le lame su una mola che gira a pedale. Il sabato, giorno di mercato, allinea sul marciapiede e in bell’ordine tutta la sua mercanzia. Nessuno dei suoi clienti sapeva che è uno scrittore e un filosofo».

Oreste Frecchiami nasceva il 20 aprile del 1894. Si mise a scrivere anche per riconciliarsi con i professori giunti a Treviglio, attorno agli anni Trenta che mal tolleravano che un artigiano vestisse come loro, di nero. Scriveva e intanto conduceva la sua bottega in via Cavour. Nei rari momenti di tregua, Oreste sedeva su una sedia impagliata e lì, come al balcone, osservava i passanti. Poi formulava giudizi e valutazioni. Li traduceva in sottili aforismi, in sentenze acute e sagaci, che poi pubblicò. Il poeta contadino, oltre ai Pensieri e ai Racconti, ci ha lasciato un diario che teneva con sé notte e giorno, composto da foglietti rigati sui quali annotava di tutto.

Limitato al quinquennio 1945-50, il diario contiene la cronaca di giornate trascorse sui libri, al caffè, nei circoli culturali, in bottega e in viaggio, ma raccoglie anche memorie lontane. Dell’asilo, con le monache, non aveva buoni ricordi, specie perché la direttrice, baffuta e severa, teneva in mano un lumino arrotolato e minacciava di bruciare la lingua ai bambini se avessero osato aprire la bocca. Nelle elementari trascorse tre anni con la maestra Cremonesi, sempre vestita di nero. A seguire prese il suo posto un maestro che dirigeva anche la banda. Quando gli scolari erano svogliati e distratti, li faceva cantare. Canzoni semplici, inneggianti alla patria, alla bandiera, al cielo e ai monti lombardi. Era un maestro un po’ catarroso. D’inverno faceva fracasso e sputacchiava. I ragazzi, per gioco, spesso tossivano, imitando gli «sforzi» del loro maestro. L’anno dopo Oreste restò a casa a «tirare il mantice del babbo» per colpa di un cinque in francese, riportato alla prova finale. L’incontro col professor Mario Ciovini, medico e dotto umanista, segnò un’altra tappa della sua avventura intellettuale. Fu lui a persuaderlo che, nonostante avesse fatto soltanto la sesta elementare, poteva studiare da sé. Bastava che incominciasse a leggere le opere di Alessandro Manzoni. Frecchiami iniziò col Manzoni e poi continuò con Rousseau, Rilke, Tolstoi, Papini, Dante, Baldi, Moravia, Metastasio e De Sanctis. E ancora Alfieri, Voltaire, Gramsci, Puskin, Cecov, Fogazzaro e tanti altri. Lesse anche i cento libri avuti in eredità dal professor Ciovini. E quando andava a Milano, Frecchiami si spingeva ogni volta fino al Musocco, là dove il Ciovini giaceva in una fossa comune.

Non avendo a disposizione uno studio, Oreste leggeva il più delle volte nella stanza da letto, avvolto dal profumo del legno dei mobili massicci e importanti, acquistati nel 1915, quand’era di leva a Cantù. Completava l’arredo un grande armadio, accostato all’unica parete rimasta libera. Lì dentro, appeso ad una gruccia di legno, conservava il suo abito scuro. Sul comodino, una pila di libri e due piccoli tappi di cera, che metteva nelle orecchie per difendersi dalla verbosità degli ospiti meno graditi. «Da un mese è finita la guerra - scriveva Oreste nel maggio del 1945 -. La luce è tornata per le strade e il sorriso sulle labbra d’ognuno. Certo che è stato un bel momento quando a Treviglio sono entrati gli Americani. Mi sono levato il cappello. I patrioti e il tricolore davano un senso di festa ai carri armati, che sembravano ferri vecchi, pachidermi, tartarughe sporche».

Dopo la guerra, riprese l’abitudine di uscire tutte le sere e di andare al caffè Calori, nonostante giudicasse gli esercenti troppo assillanti e poveri diavoli. L’ambiente era sempre lo stesso: il divano, la ragazza «faccendona», Mario Ciula oriundo caravaggino e ovviamente gli amici. Sfogliando i «Pensieri», viene facile comporre piano piano l’immagine che aveva dell’uomo, nelle sue tre dimensioni costitutive: la dimensione religiosa, quella tecnica (un uomo cioè che lavora: fa il contadino, il commerciante, il medico o altro ancora) e la dimensione sociale: ossia un uomo in relazione continua con gli altri ed innervato nel mondo in cui è.

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