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Da noi, la tradizione del culto dei defunti è rimasta viva anche dopo gli editti napoleonici. Il legame con i propri cari ha fatto nascere l’abitudine di accompagnarli in corteo, dalla chiesa fino al cimitero.
Nemmeno Napoleone riuscì a domare i bergamaschi e il loro viscerale attaccamento alla loro storia e ai defunti. Alcuni episodi storici ci confermano, e ci confortano, in questa teoria. Il 5 settembre 1806 il «Giornale italiano» pubblicava il recepimento dell’editto napoleonico che regolava la sepoltura dei defunti fuori dalle chiese: «È proibito seppellire i cadaveri umani in altri luoghi che nei cimiteri che saranno necessariamente collocati fuori dall’abitato dei comuni». Non solo: la legge napoleonica disponeva che i morti fossero seppelliti sotto lapidi della stessa grandezza tale effetto disegnate, ovvero tutte le tombe avrebbero dovuto essere uguali. Si aggiungeva inoltre l’obbligo di sottoporre i rispettivi epitaffi alla revisione dei magistrati del luogo per impedire esaltazioni alimentassero una fama “immeritata”.
Il Locatelli-Zuccala, nelle sue «Memorie Storiche di Bergamo» così raccontò come si svolsero le prime tumulazioni: «Erasi già cinto di muro ed alzato l’Altare nel Campo Santo fuori della Porta di Broseta, verso S. Lucia Vecchia. Inalberata perciò la Croce, in cotta e stola, col Clero ivi ci portammo noi parroci autorizzati dal Vescovo, e solennemente lo abbiamo benedetto, onde si persuadesse il popolo, che molto, di malavoglia si vedeva privato dei sepolti nelle chiese, che quel campo e un luogo sacro». Con lo stesso provvedimento, il Podestà Sonzogno ordinava la chiusura di tutti i sepolcri delle chiese, a spese dei singoli proprietari e con la minaccia di far eseguire tali opere alla Municipalità in caso di retinenza. La reazione dei bergamaschi non si fece attendere. Manco a dirlo, i primi funerali diedero luogo a controversie. A tal proposito le cronache dello Zuccala riferirono che, per accondiscendere al desiderio delle famiglie dei defunti, dopo la normale officiatura funebre che aveva luogo nella parrocchiale, si prolungava il saluto con un trasporto della salma in forma processionale, con accompagnamento dei rispettivi parroci, cori e quanto altro si riteneva utile.
La processione diventò dunque un’usanza comune, almeno fino a quando non cominciò ad infastidire un segretario, che in assenza del Prefetto, vietò tale pratica con lettera molto risentita e minacciosa. Il pronto ricorso dei cittadini al Prefetto stesso, valse però a ristabilire le cose. Nessuna legge governativa, venne chiarito, vietava che i cadaveri umani venissero trasportati ai cimiteri durante il giorno e con le liturgie ecclesiastiche, purché siano chiusi in cassa, e che la morte non procedesse da malattia contagiosa.
Da ciò si generalizzò poi l’uso dei funerali comprensivi anche del trasporto dalla chiesa al cimitero con maggiore o minor pompa a seconda della condizione sociale del defunto.
Facciamo un salto nel tempo e arriviamo al 1925, anno in cui nell’area attualmente occupata dal campo Utili vennero sepolte le ultime salme dei cittadini residenti nelle zone di Città Alta, di Fontana, di Borgo Canale e di Valtesse. La sua collocazione ai piedi del cuore pulsante di Bergamo, faceva sì che vi fossero sepolte diverse personalità: Luigi Tiraboschi, insigne giureconsulto, Giovanni Maironi da Ponte, filosofo e scienziato di alto valore, quel Samuele Biava dè Salvioni poeta e filosofo che godette dell’amicizia di Romagnosi e di Manzoni. E ancora Vincenzo Bonomini ben noto per le sue figure macabre, il Ronzoni che fu valente paesista. Ma, ancora più importanti, in questo cimitero riposarono per un periodo Donizetti, Mayr, Nini e Cagnoni. Donizetti e Mayr poi furono spostati in santa Maria Maggiore. I resti invece dei maestri Nini e Cagnoni furono portati nel famedio del cimitero attuale insieme alle lapidi commemorative dei caduti per le guerre d’indipendenze. Non venne trasferita, perché era una tomba anonima, quella del «Poer Nadalì» un poveretto vissuto ai primi dell’800 che fu condannato a morte dal tribunale austriaco. Prima di subire il supplizio questi fece ammenda delle proprie colpe ricordando la sua disgraziata giovinezza di trovatello e invocando e ammonendo i genitori a vigilare sui propri figli. Il pentimento, o l’innocenza, di questo bandito, commosse i cittadini che a lungo lo pregarono sul luogo della sepoltura portando fiori e accendendo ceri.
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