Vegliare i defunti tra simboli, tradizione e regole da conoscere

Un tempo era normale accogliere i defunti nelle cappelle di paese, oggi la legge lo vieta per ragioni igienico-sanitarie. Una scelta che lascia l’amaro in bocca a chi sente questo rito come un bisogno spirituale negato. Ma quali sono i motivi e cosa resta del valore simbolico di questa tradizione?

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Siamo di fronte ad una questione antica quanto delicata: contemperare il desiderio di vegliare i defunti nelle chiesine di paese, ovvero nei luoghi e negli ambienti che ci vedono vivere, e una normativa più attenta agli aspetti igienico-sanitari e alla garanzia di osservazione della salma in attesa della certificazione della morte.

Oltre 60 Comuni montani della Bergamasca avevano chiesto a Regione Lombardia di modificare le regole, ma la risposta del direttore generale del Welfare, Mario Melazzini, è stata negativa: la normativa non prevede eccezioni. L’osservazione del defunto può avvenire solo in spazi autorizzati: l’abitazione del defunto, quella dei familiari, le case funerarie, strutture socio-sanitarie o gli obitori.

Il D.P.R. del 14 gennaio 1997 stabilisce criteri rigidi. Eccone alcuni: i locali dove viene ospitata una salma devono essere attrezzati con una sorveglianza elettronica, sale di osservazione, spazi per praticare tanatoprassi e tanatocosmesi (composizione e trucco del cadavere), camere ardenti, celle frigorifere, accessi senza barriere, illuminazione e aerazione controllate, sistemi di emergenza. Non solo: devono anche essere condizionati (max 18 °C, umidità 60%, 15 ricambi d’aria/ora), oltre ad essere posizionati ad una distanza minima di 50 metri dalle strutture sanitario pubbliche e private, dai cimiteri e dai crematori. Le ragioni di tante prescrizioni sono di tipo igienico per i visitatori e di necessità della sorveglianza della «salma» in attesa della certificazione di morte (almeno 24 ore) che, come precisa nella sua risposta ai sindaci il dg di Ats Bergamo Massimo Giupponi, rende il corpo «cadavere». Inoltre anche quando il cadavere viene chiuso nella bara (e diventa così «feretro»), può sostare in chiesa solamente per il funerale e subito dopo deve essere portato altrove.

Le case funerarie, a differenza delle chiesette, dispongono di tutti questi requisiti. La ragione principale per tutte queste prescrizioni, oltre alle citate questioni igieniche e sanitarie per i parenti e i visitatori che vegliano il cadavere, riguarda il rischio (per quanto remoto) di morte apparente. Per questo la legge impone sistemi di rilevamento automatico, campanelli o sensori collegati a un arto. Sebbene non siano frequenti notizie di risvegli, anzi, la possibilità non può essere esclusa.

Radici storiche

Nel XIX secolo il timore di una sepoltura prematura (tafofobia) era diffuso. Le camere mortuarie servivano proprio a osservare i corpi fino al manifestarsi della decomposizione. La funzione dei fiori accanto alla salma nasce proprio dal bisogno di coprire l’odore che ne conseguiva. Con il tempo, per accorciare l’attesa, vennero introdotte procedure un po’ crudeli, ma decisive: conficcare uno spillo sotto l’unghia, mettere uno scarabeo vivo nell’orecchio, suonare un corno a distanza ravvicinata, tagliuzzare con un rasoio la pianta dei piedi, usare una speciale pinza per strappare i capezzoli, infilare una matita nel naso, utilizzare una macchina a manovella per tirare la lingua. Nacquero anche dei prototipi di «bare di sicurezza» dotate di tubi per l’aria e campanelli collegati ai polsi: se il defunto fosse stato vivo, avrebbe potuto avvisare i custodi. Da qui l’espressione «salvato dalla campanella».

Nella loro richiesta alla Regione, i sindaci lamentano che l’esclusione delle chiesine di fatto penalizzano ritualità antiche e collettive. Vegliare il defunto in chiesa era un momento di coesione sociale, soprattutto per gli anziani che difficilmente si spostano nei Comuni anche limitrofi per visitare un defunto. Una casa funeraria, per quanto diffusa, non ricrea l’intimità religiosa di una piccola cappella. La domanda rimane: l’abbraccio spirituale e comunitario che accompagna il lutto può essere sostituito da un contesto privatistico? Se la valenza simbolica della chiesina non ha valore, allora dobbiamo togliere anche il valore dei servizi accessori offerti dalle onoranze funebri (fiori, vestizione, auto lussuose, marmi e perfino i servizi di accoglienza)? Dopotutto il Vangelo di Matteo ci dice che non bisogna temere chi uccide il corpo perché ciò che vale è l’anima e Sant’Agostino ribadisce che il corpo ha un valore affettivo più che sacro e la sorte del corpo non intacca l’anima: anche se smembrato o disperso, nessun capello andrà perduto.

La normativa sanitaria però non lascia spazi: la veglia dei defunti nelle chiese non è permessa perché queste non dispongono dei requisiti tecnici e di sorveglianza previsti dalla legge. Le case funerarie, nate per garantire sicurezza, igiene e rispetto, hanno preso il posto delle antiche camere mortuarie. Tuttavia il nodo culturale e religioso rimane: la comunità percepisce la perdita di un rito che univa fede, tradizione e vicinanza sociale. La tensione tra esigenze sanitarie e bisogni spirituali continua, sospeso tra le regole del presente e l’àncora esistenziale della memoria. Poco cambierebbe, se non dal punto di vista economico, se i Comuni, come prevede la legge, attrezzassero nei cimiteri apposite sale di osservazione o strutture obitoriali adatte a dolenti e a defunti.

Dante Frosio: la Valle Imagna, il suo «piccolo mondo» in fotografia

Ci sono persone, come i tre fotografi che evochiamo in questo articolo, che hanno documentato i funerali che venivano celebrati in città e nei paesi della nostra provincia. Alcuni sontuosi e con un corteo affollato di confraternite, bambini e autorità, altri più sobri ed essenziali. Nessuno però se ne andava da solo, senza l’abbraccio della comunità che, un tempo sì, era capace di includere buoni e cattivi.

Dante Frosio ha documentato, insieme alla cronaca bianca e nera della Valle Imagna, anche numerosi funerali. Era collaboratore del nostro giornale ed era conosciuto sia per le sue qualità di eccellente fotografo che per il grande amore che portava alla sua terra. Le sue immagini erano particolarmente efficaci e in esse tutta la Valle si riconosceva e si faceva conoscere nelle terre dei numerosi cittadini emigranti. Si è spento nel settembre 1985.

Cesare Cristilli: camminò ore e scattò la foto perfetta al pastore

Con le sue immagini ha fermato per settant’anni il tempo, i volti e la vita del suo paese adottivo: Clusone.

Cesare Cristilli se ne è andato a 98 anni nel gennaio 1994. Ricordava con piacere e con un po’ di orgoglio quella volta che fu ospite di Guglielmo Marconi, il quale si lasciò ritrarre da lui di buon grado, grazie alla sua fama di esperto ritrattista. Sosteneva che la fotografia può cogliere l’anima di una persona, il suo carattere più vero. E che l’abilità del fotografo (ricordava Paolo Aresi in un articolo su di lui) sta proprio nell’intuire l’attimo, l’atteggiamento in cui il viso esprime una verità profonda.

Raccontava che la fotografia è arte, ma anche mestiere. Una volta per fotografare un gregge di pecore lo seguì per chilometri fino a trovare il giusto panorama, la disposizione delle pecore e l’atteggiamento del pastore con l’agnello in braccio.

Pietro Sacchi: usava la macchina fotografica come un pennello

Era il titolare dello Studio fotografico di largo Matteotti che aprì dopo aver lasciato gli spazi accanto alla chiesa dello Spasimo. Per tutti era l’artista dell’obiettivo e il «maestro della luce».

Milanese di nascita, dopo la Prima guerra mondiale seguì la sua passione per le immagini grazie alla sua sensibilità di artista. Particolarmente dotato di fantasia, Pietro Sacchi non aveva tardato ad inserirsi nella schiera dei più noti fotografi d’arte d’Europa e d’America attraverso le sue partecipazioni alle più importanti mostre fotografiche del mondo. Tali successi gli meritarono una larga e fedele clientela a Bergamo, anche perché Sacchi, per il suo sguardo paterno seppe cattivarsi le simpatie dei più piccoli e delle mamme che sapeva presentare nell’ingenuità della loro espressione e della innata capacità di cura. Come il pittore che usa il pennello, lui sapeva usare l’obiettivo.

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