«Tutto il mondo è il mio ufficio e la bici il mezzo con cui viaggiare»

LA STORIA. Giuseppe Bonetti, manager nel ramo health economics. «Tutti da remoto: la base è Londra ma con pc e wi-fi mi connetto dalle Lofoten, da New York o dal Marocco».

Giuseppe Bonetti ha 36 anni, è nato e cresciuto a Bergamo, ha studiato Ingegneria gestionale all’Università di Dalmine e oggi lavora da una spiaggia in Kenya come manager in una società di consulenza di New York di nome Maple Health Group dove è l’unico italiano di un team in cui tutti lavorano da remoto e si occupa di health economics. Domani potrebbe essere in Marocco, tra un mese in Thailandia. Londra è la sua base, ma il mondo, letteralmente, è il suo ufficio. Un nomade digitale, senza certezze fisse, senza confini, con la libertà come bussola e la bicicletta come compagna di viaggio. Il suo percorso, però, non è stato un salto nel vuoto, né una fuga. È stato un viaggio costruito passo dopo passo, fatto di scelte, di fatiche, di tentativi e di svolte inaspettate.

«Dopo la laurea nel 2012 sono partito per l’Australia. Il classico anno di viaggio e lavoro che si fa da ragazzi, facendo il pizzaiolo, esplorando, scoprendo. Un anno vissuto intensamente, senza pensare troppo al futuro. Poi sono tornato a casa, ma con l’idea che fermarmi non sarebbe stata la mia strada. Sono tornato con la Transiberiana d’inverno. Un treno che attraversa il nulla, chilometri di paesaggi sterminati, neve che copre ogni cosa». Un viaggio che gli segna l’anima e gli imprime addosso un’inquietudine nuova. L’«inquietudine» del movimento, quella voglia di scoprire il mondo, si infiltra sotto la pelle. Tornare a Bergamo, dopo aver vissuto senza vincoli, è stato un brusco risveglio. Ma il ritorno non era un punto d’arrivo, solo una parentesi prima di un nuovo viaggio.

Pendolare a Milano

«Viaggiare così ti cambia. Ti abitui all’idea di non sapere dove sarai tra un mese, di adattarti. Quando sono tornato a Bergamo, mi sembrava tutto un po’ stretto, e troppo prevedibile». Ma la vita adulta chiama. Giuseppe trova lavoro come consulente per la Bip, Business Integration Partners, la più grande società italiana di consulenza e si specializza in health economics. Milano, un ufficio, scadenze, obiettivi, clienti, abito e cravatta. Il primo anno è un trauma. «Facevo il pendolare Bergamo-Milano, sveglia alle sette, rientro alle nove di sera. Il primo anno è stato un bagno di umiltà. Arrivi in un ambiente competitivo e pensi di sapere già tutto, poi ti rendi conto che devi imparare da zero. Ho dovuto mettermi sotto, ripartire da capo. Alla fine mi sono adattato, ho preso ritmo». Quel ritmo, però, gli sta stretto. Troppo rigido, troppo uguale ogni giorno. Il treno affollato ogni mattina, la sensazione di sprecare ore di vita nei vagoni. Quando gli propongono un contratto a tempo indeterminato, lui rifiuta.

Lo studio per aprirsi più possibilità

«Ho scelto invece di aprire la partita Iva, lavoravo quattro giorni a settimana per la Bip come freelance e il resto del tempo lo dedicavo allo studio. Mi sono iscritto a un corso di web design alla Scuola Mohole, cercavo di crearmi più possibilità, di non restare incastrato in un solo percorso». Nel frattempo, costruisce un’altra parte di sé: la bicicletta. «Con alcuni amici abbiamo dato vita alla Popolare Ciclistica di Bergamo, oggi siamo più di cento. Poi è nato anche BikeFellas, un punto di ritrovo per chi ama il ciclismo. Per me la bici è sempre stata più di un mezzo di trasporto, è un modo di vivere i luoghi». Ogni estate, ma non solo, la bici diventa la «scusa» per viaggi selvaggi. Cuba, Islanda, Norvegia, Costa Rica, Irlanda. Strade sterrate, montagne, il piacere di arrivare in luoghi che nessuno raggiunge.

Il Covid e il cambiamento

Poi arriva il Covid-19 e cambia tutto. Il mondo si ferma, il lavoro si sposta da remoto. Per Giuseppe è il momento perfetto per partire. «Ottobre 2020 mi trasferisco a Londra. Volevo qualcosa di nuovo, un ambiente internazionale, più stimoli. Avevo ancora clienti in Italia, ma nel frattempo inizio a lavorare con Maple Health Group, una società americana specializzata in health economics. Loro lavoravano da remoto già prima della pandemia». Un nuovo ambiente, una nuova mentalità. «Qui non esistono cartellini da timbrare. Il mio capo non ha nemmeno il mio numero di telefono. Si lavora a progetto, in totale autonomia. L’unica cosa che conta è lavorare bene e rispettare le scadenze. C’è piena fiducia, ovviamente devi dimostrare. Dopo un po’ mi assumono full time come manager e capisco che posso lavorare da qualsiasi parte del mondo. Infatti il capo mi disse: “lavora da dove vuoi, assicurati solo di avere un buon wifi”».

Londra e il mondo

Londra è un trampolino, ma non è una casa. Durante il primo inverno si ammala di Covid-19, passa Natale, Capodanno e il compleanno chiuso in una stanza. «È stato un momento pesante. Mi sono reso conto che non volevo più passare un altro inverno chiuso in una città grigia». Parte per la Thailandia, primo esperimento di lavoro in viaggio. «Due mesi a Koh Lanta, un’isola con spazi di coworking e coliving. Era la Thailandia senza turisti, il paradiso. Potevo lavorare e nel tempo libero esplorare, trovare la mia spiaggia preferita, il mio caffè di fiducia. Viaggiare così è diverso: non stai solo visitando, vivi davvero un posto». Da quel momento, ogni inverno è una nuova destinazione.

L’anno successivo a Tangstad, un villaggio di pescatori sulle Isole Lofoten, oltre il Circolo Polare Artico. «Ho trovato un’accoglienza per nomadi digitali alle Lofoten. Durante le pause vedevo le aquile pescare nei fiordi. Il bar più vicino era a quaranta minuti, la sera ci bevevamo qualche birra a casa aspettando le aurore boreali. Silenzio, gelo, una bellezza drammatica e perfetta. Avevo trovato un’accomodation da sogno, l’Arctic Coworking Lodge, e ho pensato che ci sarei tornato ma poi ha chiuso e in seguito una tempesta l’ha distrutta. L’ho presa come un segno che nella vita non devo fermarmi troppo». Poi New York, due mesi. «Per la prima volta in quattro anni sono andato in ufficio. Il nostro spazio è vicino a Times Square, li sono in una decina (e l’azienda in totale conta circa 40 dipendenti in giro per il mondo come me). Surreale. New York è Londra all’ennesima potenza, più frenetica, più estrema, camminare per le strade di Manhattan ti da la sensazione di vivere un film».

Dal freddo delle Lofoten al caldo del Marocco

L’anno dopo è il Marocco. «Ho lavorato per tre settimane nel deserto di Agafay. Poi sono andato a Taghazout, il villaggio dei surfisti. Ancora molto autentico, una dimensione speciale». Ma non c’è solo il lavoro. Ogni anno si ritaglia due settimane per un’avventura in bici. «Amo la sensazione di essere solo con la mia bici, lontano da tutto: una tenda, un fornello da campeggio e la dinamo della bici per caricare il mio telefono. Riesco spesso a ritagliarmi avventure di cicloturismo aiutato dalla gamba temprata sulle pendici del Selvino, una salita che amo e che ho percorso migliaia di volte». Nonostante tutto, però, Bergamo resta il suo punto fermo. «Ogni estate torno per due o tre mesi. I miei genitori ormai non si stupiscono più. Sanno che riparto sempre, ma che torno sempre».

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