Fiera, ultimo giorno del presidio sanitario: «Esempio straordinario di collaborazione»

La Fiera di Bergamo compie domenica 1° agosto la sua missione di centro sanitario, dopo aver attraversato tutte le fasi della pandemia, contribuendo a salvare centinaia di vite. Oggi è l’ultimo giorno. Da lunedì tornerà alla sua funzione di vetrina del lavoro e delle risorse orobiche, ma l’impressione è che nulla sarà più come prima.

L’emozione, negli occhi di chi questo miracolo ha contribuito a tenerlo vivo per 482 lunghissimi giorni, è in realtà un mix di sensazioni fortissime. La Fiera di Bergamo compie oggi la sua missione di centro sanitario, dopo aver attraversato tutte le fasi della pandemia, contribuendo a salvare centinaia di vite umane e a ridare speranza a decine di migliaia di bergamaschi che qui, da fine gennaio, si sono vaccinati. Oggi è l’ultimo giorno. Da domani tornerà alla sua funzione di vetrina del lavoro e delle risorse orobiche, ma l’impressione è che nulla sarà più come prima. Negli ultimi 16 mesi, in Fiera si è scritta una pagina di sanità che resterà impressa in questi padiglioni, così come nella memoria dei bergamaschi e non solo. È il giorno di tirare le somme, di chiudere un capitolo importante nella lotta al Covid, ma anche di guardare avanti. «Abbiamo fatto qualcosa di straordinario, un’esperienza che ha messo in mostra tante risorse importanti, fino a diventare il terzo ospedale del Papa Giovanni XXIII». Anche la voce del direttore generale dell’azienda ospedaliera, Maria Beatrice Stasi, s’incrina per l’emozione dopo la foto di gruppo con i collaboratori che qui hanno lavorato per mesi, prima nell’ospedale da campo montato da alpini, artigiani, volontari e tifosi dell’Atalanta in una sola settimana, poi nel padiglione allestito per i tamponi e per i vaccini, di cui sono state somministrate 206 mila dosi.

«Un esempio di collaborazione straordinaria – prosegue il direttore generale – grazie al contributo dell’Associazione nazionale alpini, dei volontari di Confartigianato Bergamo, dei tifosi atalantini e di tante aziende che hanno donato i materiali necessari per la trasformazione della Fiera in presidio ospedaliero. Una sinergia che ha contraddistinto anche l’operato all’interno della Fiera stessa, dove i dipendenti del “Papa Giovanni” hanno lavorato in rete insieme ai volontari all’Ana, al contingente militare russo, Emergency, agli operatori della Protezione civile e in rete con il personale degli altri ospedali. Mi auguro che questo resti nella memoria di Bergamo come un luogo del cuore, che ha dato cure e speranza di guarigione e di vita a tantissime persone. Non dobbiamo dimenticare che il “Papa Giovanni” è ancora l’unico ospedale della provincia con pazienti Covid sia in Terapia intensiva che nei reparti ordinari, con i ricoveri che purtroppo pian piano stanno tornando a crescere».

È il campanello d’allarme che la pandemia non è finita e che nonostante la fatica di questo anno e mezzo, c’è ancora da lavorare. La Fiera chiude, ma la campagna di vaccinazione continua (per il «Papa Giovanni» a Zogno e Sant’Omobono): «Siamo arrivati al 78% di copertura con la prima dose – dice ancora Stasi –, con 52 mila dosi somministrate nelle ultime tre settimane solo in Fiera». Sono centinaia i medici, gli infermieri e i volontari che hanno dato il loro contributo in via Lunga: «Qui è andato in scena un pezzo di sanità che ha funzionato – è la sintesi di Marco Rizzi, direttore dell’Unità di Malattie Infettive del “Papa Giovanni” –. La Fiera rappresenta bene ciò che è accaduto durante la pandemia: alla prima fase, in cui abbiamo rivisto le persone dimesse per affrontare i postumi del Covid, è seguita quella dei ricoveri per acuti, poi quella delle vaccinazioni. Sono convinto che in futuro non servirà più uno spazio così ampio per l’emergenza, tuttavia avremo a che fare con questo virus ancora per un po’».

Si sono attraversate fasi diverse, con problemi e preoccupazioni diverse, a seconda delle necessità del momento, come ricorda Oliviero Valoti, direttore dell’Unità di Anestesia e Rianimazione 4, del 118 e direttore medico del presidio in Fiera: «La prima – dice – è stata particolarmente impegnativa perché eravamo al culmine dell’emergenza e le autorizzazioni sono arrivate dopo una pressione continua sulla base delle necessità che in quel momento aveva il territorio. C’è stata la difficoltà di reperire le risorse umane e poi di farle lavorare insieme in modo uniforme. Abbiamo però tutti agito con lo stesso obiettivo e questo ha aiutato». Fuori da ogni retorica, mai come in questa occasione l’unione d’intenti tra i tanti che hanno lavorato in Fiera ha fatto la differenza: «È stata un’esperienza importante, soprattutto per i rapporti che si sono creati – ricorda Alberico Casati, direttore dell’Unità Tecnica e Patrimoniale del “Papa Giovanni” –. Questa unicità ha fatto emergere la volontà di mettersi a disposizione al di là dei ruoli. Abbiamo superato tanti momenti; quello più difficile a livello tecnico? La ripartenza, a dicembre, con gli impianti di condizionamento che riscaldavano l’aria. Li abbiamo adeguati mettendo acqua calda nelle tubazioni di quella fredda e noleggiando caldaie».

Oggi si chiude una storia iniziata il 6 aprile 2020, con l’entrata in Fiera del primo paziente dimesso dal «Papa Giovanni»: «Il suo arrivo è il ricordo più forte che conservo nel cuore – racconta Luigi Daleffe, coordinatore infermieristico operativo –. Il giorno prima avevamo terminato tutte le prove e quando ho visto arrivare l’ambulanza mi è balzato il cuore in gola. Stava iniziando davvero l’attività di un ospedale costruito in tempi rapidissimi e noi eravamo lì, pronti ad accogliere i pazienti». Dagli alpini alla protezione civile, oltre ai medici bergamaschi e russi, e a quelli di Emergency: all’ospedale della Fiera sono transitate competenze e culture diverse: «La moltitudine di queste componenti – dice Monica Casati, dirigente responsabile delle professioni sanitarie e sociali – è stata una caratteristica importante, così come la necessità di mantenere un orientamento formativo e procedurale comune per tutti: per farlo, abbiamo scritto protocolli anche in cirillico. Ho trovato umanità, disponibilità e capacità di adattamento da parte di tutti». «Oggi resta la fatica, ma soprattutto la sensazione di aver fatto qualcosa di utile per la comunità, dimostrando che i vaccini sono la strada giusta per uscire dalla pandemia – dice Cristina Caldara, responsabile processi socio assistenziali territoriali e responsabile delle vaccinazioni dell’Asst –. La gioia più grande? Essere riusciti a raggiungere anche le persone più fragili, portando loro il vaccino ovunque».

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