Fiorenzo, otto mesi in ospedale: «Ora assaporo i colori della vita»

A marzo il contagio, poi la terapia intensiva e la salvezza: «Mi chiedevo perché? Ora l’ho capito: che gioia la vita».

l Covid-19 gli ha fatto passare otto mesi in ospedale, ma adesso che è tornato a casa vede splendere «i colori della vita». Fiorenzo Ferrini, imprenditore di Costa Volpino, è stato ricoverato due mesi in terapia intensiva e sei in una struttura riabilitativa, ma è riuscito a trascorrere le festività di Natale e festeggiare il Capodanno insieme ai suoi familiari. Nella sua casa al Piano, proprio sopra l’officina meccanica e la carrozzeria dove lavora con il figlio Daniele e i loro dipendenti, osserva la luce scendere dietro le montagne del lago d’Iseo e si commuove ripensando alla malattia: «Erano gli ultimi giorni di marzo, non stavo molto bene e avevo un po’ di febbre. Il medico di famiglia mi ha prescritto un tampone molecolare e il 31 marzo sono risultato positivo: dopo un paio di giorni la febbre si è alzata, sentivo dolori al petto e avevo qualche problema di respirazione».

Era il 6 aprile, due giorni dopo Pasqua, quando il medico di medicina generale gli suggerisce di recarsi in ospedale: «Sono andato in pronto soccorso a Esine, ma il reparto era affollato e di fatto i medici non sono riusciti né a visitarmi né a ricoverarmi. Così, con i miei familiari, abbiamo deciso di provare ad andare a Bergamo, al Papa Giovanni XXIII. Qui la situazione è precipitata e la sera stessa mi sono ritrovato in terapia intensiva: mi sono risvegliato due mesi dopo perché la malattia si è rivelata molto grave, con un’infezione polmonare seria, problemi cardiovascolari e una neuropatia. I medici e gli infermieri hanno dovuto intubarmi e sono stato assistito con la ventilazione meccanica».

Un mese intero sotto sedazione e un altro mese in coma farmacologico: passa così il giorno del suo 67° compleanno, il 4 giugno e, finalmente, il risveglio, benché non sia stato dei più piacevoli: «Avevo tubicini dappertutto: nel naso, in bocca, nelle braccia, e una tracheotomia in gola». Sui monitor, il tracciato del battito del cuore e quello dell’attività cerebrale, «ma gli arti non avevano voglia di muoversi e per comunicare con il personale medico dovevo usare una tabella su cui erano riportate le lettere dell’alfabeto che indicavo con una matita per formulare qualche parola». Lo stesso sistema di comunicazione viene utilizzato per parlare con la figlia Valentina, a cui chiede «perché?», la domanda che per settimane intere lo ha assillato: «L’anno prima, ad aprile del 2020, portavo i pochi dispositivi di protezione che riuscito a recuperare in due case di riposo e in ospedale; non accettavo che il Covid avesse colpito anche me. Chiedevo continuamente “perché” mi fossi ammalato, e non riuscivo a darmi pace. È stata mia figlia a tranquillizzarmi, quando un giorno mi ha risposto “un giorno lo capirai”».

Quel giorno è arrivato alla svelta e la pace che ha portato con sé non è più andata via: l’8 luglio Fiorenzo Ferrini viene spostato nella clinica riabilitativa della Fondazione Don Gnocchi a Rovato, dove rimane per cinque mesi, fino a dicembre.

«Ho dovuto ricominciare tutto da zero, persino a vestirmi. Avevo tanta grinta e pensavo che bastasse quella per tornare subito alla vita normale, ma ben presto ho capito che sarebbe servito tanto tempo per recuperare. Eppure ho scoperto l’amore, l’affetto, l’amicizia, l’altruismo e la generosità delle persone: tutte quelle che ho incontrato si sono rivelate splendide. La risposta al mio “perchè” è arrivata dall’affetto della gente: gli altri pazienti che ho conosciuto quando ero ricoverato, i medici e gli infermieri, i fisioterapisti... Non pensavo di poter ricevere da ognuno di loro così tanto affetto. La palestra dove ho imparato, di nuovo, a reggermi in piedi e a camminare è un santuario, altro che una struttura riabilitativa... E poi quando sono tornato a casa, e sono sceso dall’auto, mi sembrava che ci fosse per me un tifo da stadio: mi hanno fatto ridere, quando qualcuno ha detto “sembra essere arrivato il Papa”, oppure “è perfino più bello di prima” e adesso ogni giorno cerco di salutare tutti i nostri collaboratori, di avere con ciascuno un momento per parlare e sorridere».

La moglie Antonia, l’altra figlia Alice, e i nipoti, se lo sono coccolati a lungo: «Vedo i colori della vita, adesso. E quando torno a Rovato, tre volte a settimana per continuare la riabilitazione, passo a salutare chi mi ha curato e gli altri pazienti. A loro dico “se ce l’ho fatta io, riuscirete anche tutti voi”».

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