«In Polizia per colpa di un bulletto»
Murtas, 40 anni di servizio e ora avvocato

L’ex vicequestore Angelo Lino Murtas ripercorre la sua carriera. Ora farà l’avvocato. «Dall’amicizia con Montinaro, caposcorta di Falcone, all’ordine pubblico in Vaticano per il Papa».

Quarant’anni di polizia, gli ultimi 8 a Treviglio, alla guida del commissariato. Una vita intera in divisa quella dell’ormai ex vicequestore Angelo Lino Murtas, 61 anni, sposato con due figli. Che ora farà l’avvocato. Perché è impossibile per lui, «da bergamasco adottato», spiega, stare con le mani in mano.

Dunque, dottor Murtas, la devo già chiamare avvocato?

«(ride) Non ancora, ma è quello che farò presto. Già laureato in Giurisprudenza anni fa, di recente avevo conseguito l’abilitazione per la professione».

Salutando i trevigliesi in occasione della Messa di Don Bosco in basilica ha ricordato un episodio che la spinse a fare il poliziotto. Un fatto di bullismo ante litteram?

«Sì, perché all’epoca non sapevamo nemmeno cosa fosse il bullismo. Ero in quinta elementare ad Arbus, il mio paese d’origine in Sardegna, e c’era questo mio coetaneo, magro e smorto, orfano di madre e con papà a sua volta malaticcio per il lavoro in miniera, che veniva regolarmente vessato da un bullo. Un giorno mi sono messo in mezzo tra i due e mi sono azzuffato con quel bullo perché mi sembrava una ingiustizia. A quel punto il gruppetto di sostenitori lo hanno iniziato a deridere: da quel giorno non ha più picchiato l’altro. E con quel ragazzo ogni tanto mi sentivo finché un giorno, a 18 anni, tornato al paese a trovare i nonni al cimitero, ho visto la sua tomba. Un fatto che mi ha segnato».

Così ha deciso di entrare in polizia?

«Sì, è stata una vocazione per contrastare chi subisce un torto. Non l’ho fatto per avere un posto né perché avevo parenti poliziotti. È stato il desiderio di aiutare il prossimo e questo l’ho fatto per 40 anni. Grazie a figure come i commissari Boris Giuliano e Luigi Calabresi, uccisi dalla mafia e da Lotta Continua, decisi che avrei fatto il commissario».

Nel 1981 l’ingresso in polizia...

«Ho seguito il corso a Caserta e svolto i primi mesi di ordine pubblico a Napoli. Poi sono arrivato a Brescia per seguire un corso di investigazione. Nel 1983 sono stato destinato a Lecco e l’8 ottobre 1984 sono arrivato a Bergamo. Mentre scaricavo le mie valigie fuori dall’allora questura di via Mario Bianco c’era un giovane agente: “C’è l’ascensore?”, gli chiedo. E lui mi risponde: “Sono appena arrivato anche io”. Era Antonio Montinaro, futuro caposcorta del giudice Giovanni Falcone e morto con lui a Capaci. Diventammo presto amici, fin da quella sera quando andammo a cena a Bergamo Alta: rimasi affascinato dal paesaggio di luci da lassù e giurai a me stesso che non me ne sarei mai andato da Bergamo, di cui mi sono innamorato tanto da diventare anche tifoso dell’Atalanta durante i servizi di ordine pubblico del 1984. Antonio invece venne chiamato in Sicilia a svolgere servizi di scorta, dei quali era enormemente orgoglioso».

Infatti è rimasto a lungo in questura.

«Fino al 1988 alla Mobile e alle Volanti, poi in Procura fino al 2003 quando sono diventato commissario. Diretti i commissariati di Città Studi, Cinisello, Sempione e Rho-Pero quando posarono la prima pietra di Expo 2015, nel 2013 sono arrivato a Treviglio».

Che accoglienza ha trovato?

«I trevigliesi sono grandi lavoratori e pensano molto al prossimo e le istituzioni formano una coordinamento invidiabile. Accanto all’attività ordinaria sono stato spesso anche nelle scuole a parlare di legalità».

Qual è stato il momento peggiore in polizia?

«Sicuramente il periodo del Covid, quando si è ammalato l’amico e collega Franco Ferrari, guarito dopo 7 mesi: con lui uscivamo i primi giorni e dai balconi ci applaudivano e ringraziavano per quello che facevamo. E poi la morte di Tommaso Conti, mio ex vicequestore: la sua salma venne cremata fuori Bergamo e fui io a riportare le ceneri ai suoi familiari».

E il momento più bello?

«L’onore di essere chiamato a guidare l’ordine pubblico in Vaticano in occasione delle santificazione dei Papi Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. Tra l’altro io mi sarei dovuto chiamare Angelo Giuseppe, come il nostro Papa Roncalli. Ma all’anagrafe fecero notare a mia madre che Giuseppe era già il nome di mio papà. Così divenni Angelo Lino, come mio nonno».

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