Industriali, la ripresa e un ruolo più centrale

È mancata quest’anno la tradizionale accoppiata tra le assemblee di Confindustria e quella di Bankitalia, appuntamenti fissi di fine maggio. Rarefatta nelle presenze quella di via Nazionale (ma ricca di contenuti, ad esempio nel rapporto Stato-mercato), rinviata ad autunno quella degli industriali. Più che le parole di Carlo Bonomi, stavolta, contano i numeri, che sono incoraggianti, perché c’è ripresa, almeno nel manifatturiero. Non dobbiamo certo esaltarci guardando a incrementi della produzione che in sé sarebbero mostruosi, come quello di aprile 21 rispetto ad aprile 20. Allora era tutto fermo, e si spiega così un +73,2 (maggio + 22,6) che serve per sottolineare un dinamismo ritornato dopo il baratro, non per segnare record.

Più realisticamente pensiamo al +0,4% di maggio su aprile e dunque il cammino è ancora lungo per arrivare a dicembre ad avere recuperato metà di quello spaventoso -9% circa con cui abbiamo chiuso l’anno orribile della scoperta del Covid. Gli indicatori principali, dice il Centro studi confindustriale, sono tutti buoni: andamento degli ordini, scorte in decumulo, persino posti di lavoro, anche se nel sistema economico c’è il buco nero di almeno 100 mila posti offerti che restano senza risposta. Indispensabile naturalmente è l’uscita dall’incubo sanitario, e il riavvio dei consumi anche nei servizi. Ombre, piuttosto, vengono dal rincaro delle materie prime. Per fare un esempio concreto: a luglio sarà finita la latta per fabbricare le scatole dei pomodori pelati che arrivano nelle cucine di casa (da 400 a 1.000 dollari/tonnellata in poco tempo). E non parliamo della follia giudiziaria che incombe sull’acciaio.

Certo per Carlo Bonomi non è stata la presidenza che si aspettava. Ricordiamo la fase preparatoria della sua elezione, segnata dall’uragano di applausi con cui, alla Scala di Milano, l’allora presidente di Assolombarda ebbe il coraggio di denunciare ciò che, dopo la vittoria populista, per opportunismo la classe dirigente e i media non osavano dire. E cioè che il governo di allora stava segnando un massimo di incompetenza e impudenza, promuovendo a colpi di reddito di cittadinanza e quota 100 l’affossamento di una timida ripresa (allora era sognato un +0,1%), smontando scelte coraggiose come gli investimenti 4.0 e il jobs act, per penalizzare l’occupazione con decreti cosiddetti dignità. Erano i tempi della sconfitta della povertà e dei decreti spazzacorrotti che facevano scappare gli investimenti o della gestione sventata di Ilva, consentendo agli indiani di tagliare la corda. L’aggressività di Bonomi era stata apprezzata dagli industriali, ma quando - dopo un rinvio - è diventato davvero presidente, lo scenario era totalmente cambiato. Bisognava convivere con un nuovo governo Conte, e qui Bonomi ha fatto la gaffe più pesante: un endorsement al Conte 3, quello mai nato dai trasformisti al Senato, proprio quando l’immobilismo stava per aprire Palazzo Chigi al premier più utile al sistema economico in crisi.

Tutto questo ha smorzato il dinamismo dialettico di Confindustria, che aveva fatto pensare al miglior presidente possibile per gli industriali. Ora, l’associazione fatica ad avere un ruolo protagonista, proprio mentre i sindacati recuperano dopo gli anni della disintermediazione. È in corso all’interno un difficile processo di aggregazione territoriale, ma manca - in un Paese in cui si fatica a trovare i candidati sindaci - la spinta ad un impegno civile che in passato aveva mobilitato grossi nomi disposti a rischiare l’immagine in prima persona.

L’industriale, ora, sta chiuso nella propria fabbrica e i migliori risultati di bilancio non coincidono più con una forte esposizione esterna, anzi avviene talora il contrario. Quelli che si impegnano meritano dunque un elogio particolare, ma il clima è difficile, non solo per via del Covid. Aiuterà la ripresa, indotta dall’Europa e da un buon Pnrr, a rendere più centrale anche la funzione dell’associazionismo d’impresa? Ce n’è bisogno.

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