La scuola può salvare
il lavoro in grave crisi

Quando una società inizia a cambiare c’è un sismografo che indica il livello di guardia. Sono i licenziamenti. Per la politica è il terreno dove cadono i governi. Mario Draghi ha affrontato la crisi economica con i sostegni alle imprese in difficoltà e con la cassa integrazione. Misure che hanno il fine di tamponare l’emergenza causata dalle chiusure e che hanno mantenuto la pace sociale. Adesso sta arrivando il momento delle scelte perché la coperta è corta. Lo Stato ha speso più di 100 miliardi, una cifra enorme per i conti pubblici ma insignificante per la frammentazione dei destinatari. Chi ha un esercizio pubblico percepisce alla fine cifre minime che aiutano moralmente ma non coprono le perdite effettive. Siamo giunti al punto che le attività commerciali e anche industriali vanno lasciate al mercato per due motivi: la spesa pubblica sta diventando insostenibile per un Paese ad alto debito e poi per il semplice motivo che la gente, non solo gli operatori economici, non gliela fa più. Non tengono più le restrizioni della libertà individuale, la rinuncia ad una convivenza che abbia nella socialità il punto di gratificazione del vivere quotidiano.

L’Italia, va detto, è stata in Europa tra i Paesi più rispettosi delle norme e consapevoli delle ragioni della salute pubblica. In altri Stati quali Francia e Germania l’intolleranza dei cosiddetti negazionisti ha riempito le piazze e portato decine di migliaia di manifestanti a scontrarsi con la polizia. In Italia questi fenomeni hanno avuto un minore riscontro e solo in questi ultimi tempi l’esasperazione di chi da un anno non registra entrate e si trova alla soglia del fallimento ha dato luogo a proteste. Ed è proprio questo il campanello di allarme che ha portato il governo a muoversi. Si tratta ora di passare dagli aiuti a fondo perduto che leniscono il male ma non risolvono la causa del malessere ad un intervento strutturale. Ed è qui che scatta la distinzione che può far male. Si tratta di distinguere fra quelle attività che hanno un futuro e quelle che ne sono prive. La pandemia ha portato in superficie quello che prima era solo un processo strisciante. La rivoluzione tecnologica unita a quella ambientale rende certe produzioni di per sé obsolete. Prendiamo per esempio l’auto elettrica. Per la sua costruzione componenti decisive per il motore a combustione diventano inutili per la nuova linea di produzione. È evidente che le ditte in questione dovranno trovarsi una nuova missione sul mercato e quindi affiancarsi alle nuove esigenze produttive.

Questo passaggio non va lasciato a se stesso, va gestito. Vuol dire che i lavoratori dovranno aggiornarsi e prepararsi alle nuove competenze. Come? Con corsi gestiti dalla mano pubblica in collaborazione con le aziende per far sì che le nuove tecnologie vengano apprese e utilizzate nelle aziende. È un punto vitale per un Paese come l’Italia che non conta su materie prime ed è esposto alla dipendenza energetica. Decisivo è il valore aggiunto che si raggiunge nel processo di trasformazione. Si può per esempio diventare primi nella formula del caffè migliore al mondo senza una sola piantagione sul proprio territorio. Sono 200 mila le imprese che hanno permesso all’Italia di restare un Paese industriale. Visto il tramonto della grande industria italiana non era scontato. Un numero limitato che potrebbe aumentare ad una sola condizione: che non continui quello che l’economia italiana sta vivendo in questo momento ovvero che le imprese non trovano il 30% dei profili professionali a fronte nel 2020 di 1,4 milioni di contratti di lavoro sfumati. La crisi pandemica ha decimato le aziende e i lavoratori. Solo la scuola e i corsi di riconversione professionale li possono salvare.

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