«Basta stage, così i talenti scappano»

Scenari per il 2023. L’imprenditrice contro il modello in vigore: «Le imprese devono fidelizzare di più i migliori. Occorre sostituire i contratti a ore con quelli a risultato: gli attuali non reggono più». Un progetto con la Bocconi.

«Il 2023 sarà un anno difficile. Non solo per la recessione alle porte, la crisi energetica e il costo dei materiali di nuovo in salita, ma perché continuerà ad esserci un’altissima mobilità del lavoro che le aziende fanno già fatica a gestire». Miriam Gualini, amministratore unico di Gualini Lamiere di Bolgare, sa di cosa parla. La sua azienda, che prima del Covid occupava 120 persone, negli ultimi due anni ha subito un turnover del 17% dei dipendenti.

Partiamo dalle materie prime. Per il suo settore è fondamentale l’acciaio…

«Appena prima della chiusura natalizia i nostri fornitori ci hanno comunicato aumenti nell’ordine del 15-20%. Con l’inflazione i costi salgono e i consumi si riducono. Potrebbero calare gli ordinativi. Anche l’aumento dei carburanti avrà un impatto a livello aziendale, perché i dipendenti spenderanno di più per venire al lavoro, ma in un momento come questo è difficile riuscire ad allineare i salari. Il mio maggiore cruccio sono proprio le risorse umane».

Perché?

«Perché se le persone continuano a cambiare è più complicato portare avanti progetti di lungo periodo. Pensi che abbiamo pubblicato un’offerta di lavoro tramite una società di head hunting e nel giro di tre giorni ci sono arrivate 250 candidature. Io sono certa che non siano tutte persone senza un posto di lavoro. Credo invece che ci sia una continua ricerca di qualcosa che non c’è, un desiderio di cambiamento solo per aumentare di qualcosina la Ral (retribuzione annua lorda, ndr). Prima le persone si innamoravano di un progetto aziendale, ci credevano, lo sposavano e cercavano di portarlo avanti. Oggi non è più così. E questo non solo da parte dei giovani, ma anche dei meno giovani. È un grandissimo problema, anche se in fase recessiva la mobilità del lavoro tenderà ad abbassarsi. E in un territorio come il nostro, con una disoccupazione al 3%, si pone anche un problema etico se porti via un dipendente a un’altra impresa che magari conosci bene».

Secondo lei perché non si riesce più a trattenere risorse umane?

«Perché i contratti che si usano non rispondono alle esigenze del mondo post-pandemia. A cominciare dai contratti di stage, che non creano fidelizzazione, provocando malcontento: i giovani neolaureati vengono pagati troppo poco e quindi continuano a cambiare azienda. In Italia uno stagista prende 800 euro al mese, poi passa a un contratto a tempo determinato e, se tutto va bene, arriva infine al tempo indeterminato dopo tre anni: tanto deve aspettare un laureato prima di avere 1.500-1.700 euro al mese, mentre all’estero ne porta a casa 2.400 fin dal primo impiego».

È un problema di cuneo fiscale?

«È anche un problema di cuneo fiscale, ora ridotto di qualche punto, ma è troppo poco. In realtà penso che gran parte della responsabilità sia proprio di noi imprenditori, che abbiamo iniziato ad assumere col contratto di stage giovani talentuosi che, dopo 3 o 5 anni di università, sono pronti per entrare in azienda: chi non ha una seria motivazione a restare in Italia, va via quasi subito. E se le aziende perdono talenti, fanno fatica a star dietro a nuove tecnologie e digitalizzazione: in poche parole, a crescere. Ecco perché credo che il contratto di stage vada eliminato. Meglio il contratto di apprendistato per accompagnare i giovani nel percorso di formazione».

Non crede che uno dei motivi per cui, specie post pandemia, i giovani scappano all’estero sia la rigidità del modello lavorativo italiano?

«Ora anche il presidente di Confindustria nazionale Carlo Bonomi sta iniziando a dire che bisogna cambiare il classico contratto di lavoro a ore con contratti a risultato, perché quelli attuali non reggono. Non è solo questione di smart working, c’è proprio uno scollamento tra domanda e offerta. Siamo blindati in contratti troppo rigidi, con un cuneo fiscale non adeguato, pertanto ci perdiamo competenze».

Quindi come si lavorerà nel 2023?

«Non ho ancora una risposta. Mi chiedo se i 250 candidati che hanno mandato il curriculum in azienda siano poi disposti a restare o, invece, fra qualche mese vorranno andarsene al primo nuovo annuncio di lavoro appetibile. Come facciamo a trattenere non solo le persone chiave, ma anche gli altri? Perché un’impresa non va avanti solo con i fenomeni, ma ha bisogno anche dei portatori d’acqua».

Lei, con gli strumenti a disposizione adesso, come pensa di muoversi?

«A dicembre ho avviato un progetto con la Bocconi per trovare una modalità che aiuti anche le Pmi a trattenere risorse umane, per esempio con bonus o stock options da offrire al termine di un periodo. Solo una politica di retention più creativa potrà arginare la fuga di risorse umane».

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