«Alleati per caso»
e l’indebolimento
del governo

Qualche volta le immagini dicono molto più delle parole. Un Di Maio che assiste muto, cupo, impassibile all’accalorata auto-difesa di Conte dall’accusa di tradimento, lanciatagli da Salvini, fotografa meglio di qualsiasi analisi politologica la crisi dissociativa in corso nei Cinquestelle e, più in generale, nello stesso governo. Una guerra di posizione, o meglio una guerriglia strisciante; forse solo una partita a poker, in cui tutti bluffano: questa è la sfida in atto tra le diverse anime della maggioranza.

Nella condizione in cui si trovano questi domestici «alleati per caso», scoprono che non basta condividere l’incubo del «barbaro alle porte» – parliamo ovviamente di Salvini – per sviluppare un’efficace azione di governo. L’interesse comune ad allontanare il più possibile la temuta prova delle urne, invece di consigliar loro di metter la sordina a polemiche e rivalità, come sarebbe naturale, li spinge a esasperarle.

Per giunta, a scompigliare il gentlemen’s agreement degli ex nemici si è impegnato Renzi, il callido Matteo che con abile mossa ha mandato all’aria il complotto ordito da Zingaretti e Giorgetti per farlo fuori con le elezioni anticipate. Ma non solo, subito dopo ha scaricato sulle loro spalle l’intero peso delle responsabilità di governo. Da quel momento è partita la corsa allo smarcamento tra alleati. Il partito di Grillo non si è tirato indietro. Sprofondato nel gorgo di continui rovesci elettorali, per tentare di risalire la china non ha trovato di meglio che rinverdire l’orgoglio della sua «diversità» – diversità da tutti, dalla destra come dalla sinistra - in nome di un’autenticità purtroppo perduta.

L’implosione ha innestato al proprio interno una ricerca affannosa del colpevole: non esattamente il massimo per risollevare uno stato d’animo comprensibilmente depresso. Quindi, ha fatto finire nel congelatore il progetto, coltivato dal Pd, di dar vita a un blocco di forze capace di offrire al Paese una credibile alternativa di governo alla destra sovranista.

Chi ne sta facendo le spese è certamente il «povero» Conte. Lasciato allo scoperto a districare la matassa sempre più ingarbugliata di questioni (Ilva,Alitalia, manovra di bilancio, autonomia regionale differenziata, prescrizione, Mes, e la lista non è finita), l’avvocato del popolo è costretto a compiere continue acrobazie per non scontentare nessuno dei suoi soci di maggioranza. Dà ragione a Bonafede sulla prescrizione osteggiata da Orlando. Difende il Mes ricusato in un secondo tempo da quello stesso Di Maio che l’aveva contrattato per non dispiacere a Zingaretti. Quest’ultimo, infine, quel meccanismo lo ha ereditato senza aver messo becco nella negoziazione.

Come dar torto al segretario dem quando si lamenta che «non si può governare galleggiando sui litigi»? Litigi che è comunque difficile eliminare quando tutti i soci della scombiccherata maggioranza sono condannati ad agitarsi per non sprofondare nella palude di un governo fermo al palo. Li trattiene dall’aprire la strada al voto anticipato la fondata previsione dello smacco che li aspetta. Nel frattempo Conte ci offre la dimostrazione che, se è difficile governare galleggiando sui litigi, si può sempre galleggiare sui litigi senza governare.

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