All’ultimo voto, la sfida in Abruzzo si è riaccesa

ITALIA. Prepariamoci perché sarà una battaglia all’ultimo voto. In Abruzzo il meloniano Marco Marsilio, governatore uscente, e l’economista di sinistra Luciano D’Amico, suo sfidante, non si risparmieranno fino allo spirare della campagna elettorale per arrivare in tutte le case e conquistare l’ultimo «sì».

Particolare interessante: la legge regionale abruzzese, diversamente da quella sarda, non prevede il voto disgiunto: se voti una lista, voti anche il suo candidato presidente e viceversa, non si può saltabeccare di qua e di là. Bisogna vedere a chi gioverà questa regola, di sicuro i candidati dovranno convincere gli indecisi e gli astensionisti di essere merce buona, sia loro che i compagni di strada.

L’altroieri in piazza Salotto a Pescara, la piazza dello struscio, sotto una tempesta d’acqua tutti i leader del centrodestra sono arrivati a sostenere il loro campione, quello che nel 2019 con tanti voti assicurò a FdI la sua prima regione e per la prima volta piantò la bandiera del melonismo nella terra di D’Annunzio e di Remo Gaspari.

Marsilio non può perdere. Soprattutto dopo la Sardegna, soprattutto a pochi mesi dalle Europee: troppi rischi per la maggioranza e addirittura per il governo. Se l’accusa a lui è di aver governato la Regione da Roma, dove in questi cinque anni ha continuato ad abitare, un po’ facendo il pendolare, un po’ collegandosi dalla sala da pranzo, lui replica fiero: «Sono abruzzese da sette generazioni!». Se la critica è di aver combinato pochino, la risposta l’hanno data i ministri di mezzo governo piovuti in Abruzzo ad esporre progetti e promesse, compresa la celeberrima linea ferroviaria Roma-Pescara su cui si è impegnata Giorgia Meloni in persona facendo saltar fuori 720 milioni di stanziamenti (ma l’opposizione parla di giochi di prestigio, quei soldi - accusa - erano stati tagliati proprio dal governo). Ed è paradossale che l’unico vero siluro a Marsilio l’abbia sganciato il ministero della Cultura il cui ufficio giuridico ha bocciato la decisione di tagliare un’area protetta della costa da 1.100 a 25 ettari. Risultato: il governo dovrà impugnare la decisione della Regione.

Sull’altro fronte, bisogna dire che fino al voto sardo la battaglia era considerata persa in partenza: troppo forte Marsilio, nel 2019 scelto da quasi il 50 per cento dei votanti. E invece, dalla vittoria di Todde in poi, a sinistra si sono riaccese le lampadine. Tant’è che lo stimato professor D’Amico, fino a qualche settimana fa poco più di una decorosissima vittima sacrificale, è diventato uno «che ce la può fare». A suo vantaggio, a parte la credibilità personale e professionale, c’è una coalizione senza rotture (dentro tutti: da Calenda a Fratojanni passando per Schlein e Conte) e soprattutto non c’è il fuoco amico di una candidatura come quella di Renato Soru in Sardegna che alla Todde ha portato via un bel mucchio di voti. Pare insomma che una volta tanto a sinistra siano riusciti a non litigare, e quindi incrociano le dita: sperano in D’Amico e sperano nella spallata al governo.

Curioso: anche dall’altra parte, per bocca di Salvini, si nutre speranza di vittoria perché «per fortuna questa volta non abbiamo litigato». E lo dice, il ministro, perché a lui il boccone amaro della mancata candidatura del «suo» Solinas in Sardegna, è stato largamente addolcito dalla sonora sconfitta di Truzzu, il candidato che gli fu imposto direttamente dalla premier. «Questa volta eravamo tutti d’accordo su Marsilio, e ce la faremo» assicura, volando verso l’ennesima inaugurazione di un tratto stradale.

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