L’assegno unico:
ora vigilare sulle risorse

L’assegno unico universale per i figli in Italia diventerà realtà nei prossimi giorni con l’atteso decreto attuativo della riforma. Dalla primavera 2022, milioni di famiglie potranno ricevere una somma mensile per ogni figlio fino al compimento del 18° anno di età, poi un importo minore fino al 21° anno. Parliamo di una cifra compresa tra i 50 e i 180 euro in base all’Isee familiare, con una maggiorazione dal terzo figlio in poi. Siamo di fronte a un cambiamento positivo delle politiche pubbliche per sostenere la natalità, il superamento di vecchi bonus, assegni e detrazioni spesso estemporanei e indecifrabili. Tuttavia rimangono in piedi obiezioni che purtroppo non hanno ancora avuto risposta.

La prima è quella per cui se la natalità è finalmente riconosciuta come un valore, in un Paese che attraversa un rigido inverno demografico (oggi una donna italiana ha in media 1,3 figli, dovrebbero essere 2,1 per mantenere una popolazione stabile nel tempo), non si capisce perché le nascite non debbano essere incentivate a prescindere dal reddito familiare. L’assottigliarsi dell’assegno unico all’aumentare del reddito, e addirittura il suo azzerarsi in presenza di un Isee oltre i 50mila euro, testimoniano la perdurante confusione tra legittime misure anti-povertà e misure pro-natalità.

La seconda obiezione, ben argomentata ancora sabato scorso su queste colonne da Francesco Belletti, direttore del Centro internazionale studi sulla famiglia, riguarda gli stanziamenti previsti per l’assegno unico: 6 miliardi di euro che si aggiungono ai fondi dirottati da assegni e detrazioni, relativamente poca cosa in confronto a politiche ben meno rilevanti per il futuro del Paese. Per correggere tali limiti, al Parlamento e all’opinione pubblica non resta che mantenere alta l’attenzione sulla quantità di risorse da dedicare all’assegno unico, e battersi per un loro aumento. La disciplina economica può tornare utile per spiegare perché ciò sia cruciale, in particolare la cosiddetta «malattia dei costi» teorizzata alla fine degli anni Sessanta dallo studioso statunitense Willam J. Baumol. Quest’ ultimo osservò che per eseguire il Quartetto per archi n.14, ultimato da Ludwig van Beethoven nel 1826, occorrono necessariamente quattro musicisti e almeno 40 minuti di tempo. Era così duecento anni fa, è così allo stesso modo oggi nel 2021.

La produttività dei quattro musicisti, dunque, non è aumentata negli ultimi secoli, a differenza di quanto osservato per la maggior parte degli altri mestieri nello stesso arco di tempo. E se è vero che alla maggiore produttività di molti settori più innovativi è corrisposto negli ultimi duecento anni un incremento del salario orario reale, il costo-opportunità di passare 40 minuti ad eseguire il Quartetto per archi n. 14 (invece che fare altro) è cresciuto. Semplificando un po’, se ne deduce che i costi di produzione della musica classica dal vivo - settore «non progressivo» - sono saliti relativamente ad altri settori «progressivi» sostenuti dallo sviluppo tecnologico. Il punto è che crescere e accudire i figli, come osservato di recente dal giornalista americano Matthew Yglesias, assomiglia più a suonare Beethoven che ad altre attività rese ripetitive o semplificate dall’innovazione tecnologica.

Negli ultimi decenni la produttività dei genitori dentro le mura domestiche non è aumentata, mentre lo è certamente il costo-opportunità del tempo trascorso con i figli, misurato per esempio in termini di salario o carriera cui si può essere costretti a rinunciare. Dunque se è vero che natalità e cura dei figli hanno un valore anche sociale, e che tali attività soffrono della cosiddetta «malattia dei costi», sarà opportuno sostenerle con crescente e lungimirante generosità.

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