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MONDO. Vitalità tecnologica e industriale, associate a una politica industriale che assomiglia a una politica di potenza, sono gli ingredienti di un successo cinese.
Le automobili «made in China», specie quelle elettriche e ibride, avanzano rapidamente nel mercato europeo, Italia inclusa. Nella prima metà del 2025, le immatricolazioni di vetture cinesi sono aumentate addirittura del 91% in 28 Paesi del continente analizzati dagli esperti di Jato Dynamics, e la quota di mercato si è attestata complessivamente al 5,1%, con picchi superiori per le auto green. Per i consumatori vuol dire una più ampia possibilità di scelta. Per le aziende europee vuol dire maggiore concorrenza e minori profitti garantiti. Per tanti dipendenti delle aziende europee vuol dire rischiare di perdere il posto di lavoro, come stiamo vedendo purtroppo anche nel nostro Paese. Per l’Europa nel suo complesso, se questa avanzata procederà fino a diventare un trionfo, vorrà dire diventare dipendente da Pechino in un (altro) settore manifatturiero e tecnologico.
Tralasciando per un attimo le debolezze di cui siamo direttamente responsabili come europei, e i gravi errori dei regolatori nazionali e di Bruxelles che soltanto adesso iniziano a fare autocritica rispetto a una transizione ecologica caratterizzata da tappe forzate ed eccessi dirigistici, come si spiega questo sprint cinese? Secondo un’opinione diffusa, le auto cinesi sarebbero generalmente di bassa qualità, ma il lavoro a basso costo in patria e i generosi sussidi pubblici dell’ex Impero celeste sosterrebbero comunque l’espansione delle aziende locali ai danni di aziende europee perlopiù private. Secondo un’altra corrente di pensiero, le aziende cinesi quasi all’improvviso si sarebbero messe a correre più delle europee che primeggiavano nel settore da decenni, un po’ per rinnovata inventiva un po’ per consolidata etica del lavoro. Il problema vero, per noi europei, è che entrambe le ipotesi racchiudono almeno una parte di verità, il che rende più difficile qualsiasi tentativo di reagire.
Alfredo Altavilla, ex braccio destro di Sergio Marchionne, un anno fa è diventato special advisor per l’Europa di Byd, colosso cinese dell’automotive che nel 2024 è riuscito a superare di un soffio l’americana Tesla per numero di auto elettriche vendute nel pianeta. Parlando al Giornale, Altavilla qualche giorno fa ha detto: «In Cina oggi l’impiego massivo dell’Intelligenza artificiale consente di passare dal concept al prodotto in appena 18 mesi, il tempo necessario in Europa per realizzare il restyling di un veicolo. Inoltre, Byd è già alle batterie allo stato solido». Se avete il dubbio che il ragionamento di Altavilla assomigli a quello dell’oste che incensa il vino della casa, allora provate ad ascoltare i principali concorrenti occidentali. Oliver Blume, a.d. di Volkswagen, regina dell’auto «made in Deutschland», qualche settimana fa al Salone dell’auto di Shanghai ha promesso agli investitori «la velocità cinese, senza cambiare il nostro Dna», un’accelerazione dei propri processi interni, una nuova partnership con una start-up cinese dell’elettrico per immettere nel mercato un nuovo modello in 18 mesi, abbattendo i costi del 40%. I produttori cinesi, insomma, riducendo drasticamente il tempo di sviluppo di un veicolo, possono risparmiare capitale investito, abbassare i prezzi di listino e offrire modelli sempre al passo coi tempi. Si tratta di un vantaggio manageriale, ma anche culturale: secondo gli addetti ai lavori, le Case cinesi avrebbero una mentalità «in stile Silicon Valley», essendo meno avverse al rischio e più disponibili ad abbandonare subito al loro destino modelli di auto che si rivelassero fallimentari.
Per spiegare l’avanzata delle quattro ruote cinesi, però, non si può glissare su alcune peculiarità del «capitalismo di Stato» della seconda economia mondiale. Secondo il think tank americano Center for Strategic and International Studies, il governo di Pechino ha elargito infatti sussidi al settore nazionale dell’auto elettrica per 230,9 miliardi di dollari tra il 2009 e il 2023. Con questi soldi sono stati finanziati sconti ai consumatori per l’acquisto di auto elettriche, esenzioni fiscali, infrastrutture di ricarica, ricerca e sviluppo delle aziende e acquisti pubblici di vetture. E la stima non include fondi degli enti locali, agevolazioni creditizie per le aziende e aiuti ad altre imprese della stessa catena del valore (come quelle che estraggono materie prime o che producono soltanto batterie). Si tratta di aiuti pubblici fra le tre e le nove volte più generosi di quelli offerti da qualsiasi Paese occidentale.
Vitalità tecnologica e industriale, associate a una politica industriale che assomiglia a una politica di potenza, sono gli ingredienti di un successo – quello cinese – che l’Europa non può più limitarsi a contemplare.
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