Auto green, interessi nazionali ed europei

Il commento. Esistono ragioni di principio e legittimi interessi nazionali dietro la scelta di alcuni Stati, tra i quali l’Italia, di opporsi allo stop europeo alla vendita di auto nuove a benzina, diesel o ibride dal 2035. Sul piano dei principi, come già argomentato, per ridurre le emissioni nocive il metodo della «neutralità tecnologica» invocato da Roma pare più difendibile della simil-pianificazione centrale con cui Bruxelles intende prescrivere in sostanza un’unica tecnologia per tutti, l’elettrico, chiudendo di fatto la porta a innovazioni di altro genere.

Sul piano dell’interesse nazionale, una transizione green a tappe forzate - è il ragionamento dell’esecutivo italiano - potrebbe avere un impatto sociale altrettanto negativo di quello economico. Verrebbe colpito in particolare il settore della componentistica automotive, un comparto della manifattura in crescita da anni e che nei primi undici mesi del 2022 ha registrato esportazioni per 21,6 miliardi di euro. Un comparto peraltro ben radicato nella provincia di Bergamo che, con le sue 89 aziende della componentistica automotive (dati Anfia del 2022), è la quarta più importante del Paese dietro Torino, Milano e Brescia. Inoltre, la componentistica tricolore è fortemente integrata nella filiera dell’automotive europeo, specie tedesco, visto che il 21,2% dell’export è destinato alla Germania e il 23,2% dell’import (inferiore all’export in termini assoluti) proviene dallo stesso Paese, con i secondi classificati ben distanti. Difendere l’interesse nazionale italiano, in questo caso, equivale dunque a tutelare l’interesse europeo che consiste nel mantenere un’industria manifatturiera vitale nel continente, con ricadute positive per la creazione di benessere, formazione e lavoro.

Cosa dire della posizione di altri Paesi europei rispetto alla scelta di mettere al bando i motori endotermici dal 2035? Si prenda la Germania, a lungo capofila della proposta sulle auto green, nonostante i recenti dubbi del governo Scholz sui quali tornerò fra poco. Dal punto di vista ideale, Berlino stavolta sembra deviare rispetto al proprio tradizionale «ordoliberalismo», favorendo un approccio dirigista alla transizione ecologica. Quanto agli interessi nazionali, si potrebbe pensare che il primo produttore europeo di auto riconosca la convenienza di una transizione il più possibile accorta e ragionata. Finora però Berlino si è convinta che la sua forza economica le consentirà di fare fronte all’aggressiva concorrenza cinese e americana sull’elettrificazione: la aiuteranno finanze pubbliche ben solide, utili per investimenti infrastrutturali e ammortizzatori sociali, e investimenti privati monstre da parte dei suoi colossi automotive. Senza contare che le Case automobilistiche «made in Deutschland» hanno spostato sempre più il proprio baricentro verso la Cina, un Paese che nel 2021 ha prodotto 26,1 milioni di vetture, il doppio dell’Europa, nel quale aziende come Volkswagen producono attraverso joint-venture locali, primeggiano nelle vendite e generano circa metà degli utili a livello globale, il tutto in un contesto ecologicamente meno esigente di quello del Vecchio Continente. Le recenti battute d’arresto delle Case tedesche nel segmento elettrico cinese, così come la richiesta a Bruxelles di un’eccezione per i soli motori a combustione alimentati da carburanti sintetici (esplicitamente motivata come necessità per tutelare il know-how di un «Exportland», un «Paese esportatore»), spiegano i dubbi dell’ultima ora di Berlino sulla data del 2035. Ma i dubbi si trasformeranno in un veto sul regolamento Ue? Difficile a dirsi. Per le ragioni viste prima, in Germania, interesse nazionale (per far crescere le Case tedesche) e interesse europeo (per preservare una filiera continentale) sembrano meno allineati che in Italia.

Non sarebbe l’unico caso, d’altronde. In Ungheria il Governo Orban, che ha definito le politiche climatiche europee «una fantasia utopistica», non inarca nemmeno un sopracciglio rispetto a una scelta così discussa come quella sui motori a combustione. Tra gli analisti, c’è chi punta il dito sul boom della produzione di batterie e tecnologie per l’elettrico nel Paese magiaro, con il decisivo sostegno del colosso cinese Catl che ha annunciato investimenti di oltre 7 miliardi di euro per costruire la più grande gigafactory del continente. Tecnologie e soldi extra-europei che non sarebbero penalizzati dalla tagliola del 2035, anzi. A pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina.

© RIPRODUZIONE RISERVATA