Autonomia differenziata, una faglia pericolosa

POLITICA. È stato solo grazie all’alluvione in Emilia Romagna e alle concitate telefonate con l’Italia che l’hanno impegnata mentre si recava al G7 di Hiroshima, che Giorgia Meloni è riuscita ad arginare l’arrabbiatura di Matteo Salvini e della Lega per la discrepanza che si va sempre più manifestando tra i partiti della coalizione sulle riforme costituzionali.

Non ci voleva l’incidente del documento dei tecnici del Senato che demolisce il progetto del ministro Calderoli sull’autonomia differenziata delle Regioni, per sapere che Fratelli d’Italia e Forza Italia hanno tutta l’intenzione di rinviare il più possibile una riforma che non condividono e che in ogni caso subordinano a quella del presidenzialismo. È per questo che, quando è apparso sulle agenzie di stampa il documento dell’autorevole Servizio Bilancio del Senato, i leghisti l’hanno interpretato come una mossa da fuoco amico.

Quel documento – poi goffamente ridimensionato a «bozza non corretta» – in realtà fa a pezzi la riforma dando sostanza alle critiche che le opposizioni dall’inizio fanno al testo Calderoli: secondo il Pd e il M5S con esso le Regioni ricche diventerebbero più ricche e quelle povere talmente povere da non poter più assicurare neanche le prestazioni essenziali per esempio nella sanità, nell’istruzione, nel welfare.

Nello stesso tempo, scrivono i tecnici, lo Stato non avrebbe né i mezzi né i poteri per assicurare l’uguaglianza dei cittadini, sancita dalla Costituzione ma negata nei fatti dalla nuova legge (che così subirebbe fatalmente il vaglio della Consulta). Sarebbe, in sostanza la divisione dell’Italia: non a caso i democratici hanno definito «Spacca-Italia» il progetto cui invece i leghisti assegnano un significato identitario ineliminabile.

«La approveremo prima delle elezioni europee, i nostri alleati se ne facciano una ragione» diceva ieri in Transatlantico il salviniano Matteo Morelli. Il punto è proprio questo: Salvini sospetta che Meloni e i berlusconiani vogliano dare precedenza alla riforma del presidenzialismo (intesa o come elezione diretta del Capo dello Stato o come istituzione del premierato sempre a suffragio universale) in modo tale che prima delle elezioni europee della prossima primavera il progetto abbia ricevuto il sì di almeno una Camera. Per l’autonomia differenziata se ne riparlerebbe più in là, molto più in là: il rischio infatti è che il disegno di Calderoli scateni una reazione del centrosud e del suo elettorato largamente di centrodestra.

Ecco insomma quello che Salvini è riuscito a dire a Giorgia Meloni prima che quest’ultima si occupasse di alluvione e di G7, ed ecco ciò che Calderoli ha urlato in faccia al presidente del Senato La Russa, considerato l’«ispiratore» della pubblicazione del testo dei tecnici di Palazzo Madama. Calderoli ha smentito di aver minacciato le dimissioni dal governo nel caso in cui si mettano i paletti al suo lavoro, ma non c’è dubbio che la tensione resta, ed è altissima.

Del resto avevamo già previsto che questa contraddizione sarebbe esplosa prima o poi: coniugare l’elezione diretta del vertice dello Stato in un disegno fortemente centralista con una devoluzione amplissima di poteri alle regioni è un’operazione quasi impossibile come non a caso hanno avvertito molti costituzionalisti.

Le due direttrici rispondono a motivazioni politiche che da sempre appartengono alla destra meloniana, da una parte, e al movimento leghista dall’altra: nessuno ci può rinunciare ma metterle insieme è improbo. E le tensioni provocate da una simile operazione non possono non scaricarsi sul governo.

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