Boris Johnson
scherza col fuoco

Siamo vicini alla paralisi nelle trattative tra Regno Unito ed Unione europea. Ormai è muro contro muro tra Londra e Bruxelles e la fatidica data del 31 dicembre 2020 – che segnerà la fine del periodo di transizione con l’uscita definitiva della Gran Bretagna dall’Ue – è davvero dietro l’angolo. In breve, si rischia una «hard Brexit», senza alcun accordo commerciale tra le parti, con tutte le conseguenze del caso. L’ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso è caduta lunedì, quando il premier Boris Johnson ha fatto approvare ai Comuni un progetto di legge che mette in discussione impegni già presi con i Ventisette. Si sa, spesso in trattative complicate si registrano avanzate fulminee come inattesi passi indietro. Boris Johnson sta, però, giocando con il fuoco. In primo luogo sta andando contro le regole secolari della geostrategia britannica, ossia mai permettere che un’unica forza riunisca il Vecchio continente. Nel sistema di equilibrio europeo Londra ha sempre agito in questa ottica, contro la potenza egemone o emergente: nell’Ottocento contro la Francia, nel primo Novecento contro la Germania.

Poi dal 1973, quando non se ne poteva fare più a meno, dentro al progetto europeo, dove il Regno Unito ha rappresentato la voce critica e volontà frenante verso una vera unione. Il giorno dopo la vittoria della Brexit - non lo si dimentichi - si è tenuta una riunione della struttura militare dell’Ue che ha posto le fondamenta per reali Forze armate europee. In secondo luogo, seppure in presenza di analisi pur condivisibili sui futuri equilibri economico-commerciali all’interno del Regno Unito (ecco la ragione del progetto di legge approvato ai Comuni), Boris Johnson rischia di far pagare al suo Paese un conto salato.

Sorge a questo punto una domanda: ma l’economia di Sua Maestà è in grado di sostenere contemporaneamente i costi della pandemia Covid-19 e quelli pesantissimi di una «Hard Brexit»? Un’ultima considerazione: un divorzio doloroso e non concordato riaprirebbe immancabilmente le questioni scozzese e nordirlandese, dando forza agli elementi centrifughi. Il vecchio detto che Edimburgo è più vicina a Parigi che a Londra tornerebbe d’attualità e frenare la voglia di indipendenza scozzese, come all’ultimo referendum del 2014, sarà complicatissimo. Soprattutto se gli scozzesi vorranno riunirsi ai Ventisette e Bruxelles si dimostrerà disponibile a riaccoglierli. Siamo insomma di fronte ad un azzardo che mette in pericolo la stessa esistenza del Regno Unito, come lo conosciamo noi dal 1707.

Un azzardo, ancora più forte, se aggravato da un possibile futuro isolamento internazionale all’interno dello stesso Occidente. Se a novembre Donald Trump perderà le presidenziali negli Stati Uniti il progetto ultraconservatore, tanto caro ai nostalgici settantenni, di creare una nuova area anglo-americana nel mondo, tramonterà definitivamente.

Ed allora, in tal caso, Londra sarà costretta ad accettare la situazione in cui il mondo globalizzato del XXI secolo ha oggi realtà regionali fortissime – come gli Usa, l’Unione europea, la Cina e l’Asia Pacifico - ed il Regno Unito sarà relegato ad un ruolo marginale. Anche perché l’Unione europea non gli permetterà di agire al di fuori di certe regole e diventare una specie di off-shore, polo attrattivo di gente senza scrupoli. Dopo la crisi ucraina del 2014, al culmine dell’ennesimo scontro tra Londra e Mosca, i russi definirono in maniera dispregiativa il Regno Unito - secolare avversario in ogni angolo del globo - come l’«isoletta»! Boris Johnson sta realizzando tale scenario.

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