Boss scarcerati
I numeri e la pena

Ha destato indignazione la scarcerazione nei giorni scorsi di 387 detenuti, che giornali e tv nazionali hanno definito boss mafiosi e narcotrafficanti: messa così la notizia non poteva che far sobbalzare sulla sedia e creare sdegno bipartisan. A fine febbraio nei penitenziari italiani c’ erano 61.230 persone, a fronte di una capienza regolare di 47.000. Il coronavirus si è infilato anche in quegli edifici, contagiando e uccidendo agenti di polizia penitenziaria e carcerati, mentre non si contano i casi sospetti, detenuti privi di dispositivi di protezione «in isolamento» in celle multiple.

Il 17 marzo il governo ha approvato un decreto per evitare il sovraffollamento, durante il picco dei contagi, che prevede di scarcerare temporaneamente chi ha una pena residua non superiore ai 18 mesi e comunque non condanne per delitti gravi. Così quasi seimila reclusi non sono stati liberati, ma finiti in detenzione domiciliare (che resta comunque una pena). Nei giorni successivi il Dipartimento dell’ amministrazione penitenziaria ha emesso una circolare sulla base di valutazioni dell’ unità medica interna, in cui si segnalano i rischi sanitari per chi è affetto da alcune patologie, come quelle oncologiche, l’ Hiv, malattie dell’ apparato cardiocircolatorio o croniche dell’ apparato respiratorio.

I magistrati di sorveglianza applicano la circolare. «Fino a contemplare, appunto, la scarcerazione di boss di chiara fama» scrive il quotidiano «la Repubblica», che per alcuni giorni cavalca la vicenda. Nell’ articolo che dà conto delle scarcerazioni si citano un boss di Palermo, un padrino della mafia dei pascoli, uno dei principali broker del traffico internazionale di cocaina e un manager a servizio della ’Ndrangheta. Poi il testo precisa che solo tre dei detenuti mandati ai domiciliari sono sottoposti al 41 bis, il carcere duro riservato ai capi mafiosi. Ma non dice che dei 376, 120 non sono mai stati processati e quasi 200 non sono stati ancora condannati in via definitiva.

A spiegare chi sono due dei tre al 41 bis e la loro condizione nel dettaglio è, sul sito «volerelaluna», Livio Pepino, già magistrato e ora direttore delle Edizioni del Gruppo Abele di don Luigi Ciotti, sacerdote che ha avuto come seconda vocazione la lotta alla criminalità organizzata. Il primo è Francesco Bonura, 78 anni, condannato per associazione mafiosa a 23 anni, con fine pena dicembre 2020, portatore di gravi patologie oncologiche e cardiorespiratorie. Il secondo è Pasquale Zagaria, 60 anni, condannato per associazione camorristica a 21 anni e 7 mesi, con fine pena dicembre 2023, costituitosi spontaneamente nel giugno 2007, confesso per gran parte dei delitti contestatigli e di cui, già nel 2015, la Corte d’ appello di Napoli, revocandogli la misura di prevenzione della sorveglianza speciale, aveva escluso l’ attualità dell’ appartenenza al sodalizio criminale; Zagaria è stato sottoposto nel dicembre scorso a un intervento chirurgico per una patologia oncologica. La pena domiciliare è stata disposta con rigide prescrizioni (nonché, nel secondo caso, per il solo periodo di sei mesi previsto per le cure). Pepino scrive di un problema più generale, che ha «a che fare con la stessa concezione dell’ antimafia, non da oggi a rischio di puntare soprattutto sulla repressione penale e carceraria (all’ insegna del “buttare via la chiave”). Su questo, dunque, serve un confronto. Il tema - superfluo dirlo - non è il se dell’ impegno antimafia (che è una priorità assoluta) ma il modo in cui esso si manifesta e si esprime. La questione è complessa e non si presta a semplificazioni ma c’ è, almeno per me, un punto fermo: quello secondo cui lo Stato, per essere - alla lunga - credibile e autorevole, deve saper coniugare una risposta alla criminalità senza cedimenti (nella consapevolezza della sua pericolosità) con un senso di umanità privo di tentennamenti ed eccezioni».

Il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso dalla mafia a Palermo il 3 settembre 1982 insieme alla moglie e alla scorta, sosteneva che il problema non è solo quello di rinchiudere in carcere gli esponenti mafiosi ma anche, e soprattutto, quello «di trasformare i dipendenti della mafia in alleati dello Stato: operazione possibile solo in presenza di uno Stato capace, sempre, di anteporre la giustizia alla vendetta e all’ annientamento fisico dei suoi “nemici”».

Travolto dalle reazioni e rischiando la sfiducia in Parlamento, il confuso ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha annunciato un decreto per rivalutare le decisioni. Peraltro non esiste un rischio di scarcerazione di massa di mafiosi, tanto che è stata negata la concessione dei domiciliare al pericoloso boss Nitto Santapaola. Là dove è stata accordata, è l’ esito di valutazioni sui comportamenti in carcere, sulla collaborazione con i magistrati e applicando il diritto alla salute garantito ad ogni individuo dall’ articolo 32 della Costituzione.

Ma che cosa è esattamente la pena? Lo ha chiarito Papa Francesco incontrando gli studiosi dell’ Associazione di diritto penale: «Tra la pena e il delitto esiste un’ asimmetria e il compimento di un male non giustifica l’ imposizione di un altro male come risposta. Si tratta di fare giustizia alla vittima, non di giustiziare l’ aggressore. Questi sono valori difficili da raggiungere ma necessari per la vita buona di tutti.

Non credo che sia un’ utopia, ma certo è una grande sfida. Una sfida che dobbiamo affrontare tutti se vogliamo trattare i problemi della nostra convivenza civile in modo razionale, pacifico e democratico».

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