Bye bye Boris, a Londra comanda l’economia

Tempestoso all’inizio, nel 2019, quando ottenne per i conservatori la più ampia maggiorana parlamentare dal 1987 e per portare in porto la Brexit non esitò a fare qualche sgarbo protocollare anche alla regina Elisabetta II. E tempestoso alla fine, con queste dimissioni date controvoglia e solo di fronte alla rivolta del partito e alla fuga dal Governo di decine di ministri e sottosegretari da lui stesso nominati.

Boris Johnson, anzi Alexander Boris de Pfeffel Johnson come dettano le sue nobili ascendenze, non è certo stato un personaggio noioso. Lo dimostra anche il modo un po’ sprezzante con cui ha alla fine accettato l’appello a lasciare che gli arrivava dal partito, da lui definito «istinto di gregge».

Eppure la sua frecciata ha qualche ragione di essere. Gli avversari interni ed esterni ora gli rimproverano il Partygate, ovvero i festini a Downing Street, mentre il resto del Paese era alle prese con il distanziamento sociale e il lockdown; gli scandali sessuali di certi suoi alleati politici, coperti anche a costo di compromettere il buon nome del Governo e poi infine ammessi; e anche il ruolo invadente della moglie Carrie Symonds, di 24 anni più giovane di lui e, soprattutto, ex responsabile della comunicazione del Partito conservatore e quindi abituata a muoversi nei meandri della politica. Due mesi fa, peraltro, Johnson era già scampato a un voto di sfiducia da parte del suo partito che era già una chiara avvisaglia della valanga ostile in arrivo. Ma forse tutto questo non sarebbe bastato se i conservatori non avessero perso le ultime due importanti elezioni suppletive e, soprattutto, se il Paese non fosse alle prese con una crisi economica ormai pesante, tra assestamenti post-Brexit e crisi dei rapporti con la Russia.

La disoccupazione nel Regno Unito è bassa ma l’inflazione (che ormai veleggia verso il 10%) corrode il potere d’acquisto dei salari, già messi a dura prova da un’ondata generale di rincari che toccano ogni settore merceologico, dall’energia ai generi alimentari, il cui costo è cresciuto del 9% nel solo mese di maggio. Non a caso la sfiducia dei consumatori viene rilevata a livelli record, persino superiori a quelli registrati durante la grande crisi globale del 2008. Un premier azzoppato dalla contestazione interna, e reso dagli scandali un facile bersaglio per le opposizioni, non poteva pensare di gestire una situazione così complessa. Alla quale peraltro si aggiunge la fortissima esposizione internazionale a causa della guerra scatenata dalla Russia e del sostegno all’Ucraina, in cui il Governo Johnson è stato sempre in prima fila.

Per la successione i book-maker inglesi puntano su Dominic Raab, l’attuale vice-premier, o sull’ex ministro del Tesoro Rishi Sunak. Ma Johnson, che è un combattente, tenta ancora l’ardua impresa di restare in carica fino all’autunno, forse per influenzare la successione. Molti ora temono che con le dimissioni di Johnson il fronte europeo anti-Putin perda uno dei suoi più decisi campioni. È di fatto impossibile che succeda, almeno finché governeranno i conservatori. L’atlantismo e l’unità di destino con gli Usa (fino a ipotizzare alleanze anti-Ue con Paesi Ue dell’ex Est sovietico) sono nel Dna di questo sistema politico e lo erano anche prima della Brexit. Con un premier meno irruento e più pettinato di Johnson cambieranno forse i toni e gli atteggiamenti, non la sostanza. Ma come diceva Bill Clinton all’epoca della sua prima elezione nel 1993, «it’s the Economy, stupid!». È sempre l’economia a decidere. Affrontare la crisi e gestirla sarà la vera e complicatissima sfida di qualunque successore.

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