Cantone lascia
ma i corrotti restano

Raffaele Cantone lascia l’Autorità anticorruzione. Dopo oltre cinque anni alla presidenza, lo ha annunciato egli stesso in una lettera sul sito dell’Authority. «Sento che un ciclo si è definitivamente concluso, anche per il manifestarsi di un diverso approccio culturale nei confronti dell’Anac e del suo ruolo». Frase un po’ «gesuitica», che forse meriterebbe qualche approfondimento. Cantone ha fatto richiesta per rientrare in magistratura, «che ho sempre considerato la mia casa».

Alle voci che lo vogliono troppo vicino al Pd e dunque sgradito a questo governo, Cantone risponde con un atteggiamento non polemico ma costruttivo. Dice di sentire l’esigenza di lasciare per una specie di richiamo della foresta, di voglia di rimettersi in gioco non più come amministratore ma indossando la toga. Chi scrive lo conosce dai tempi in cui era un giovane sostituto procuratore a Napoli, acerrimo avversario dei casalesi. Quando lo intervistai nella sua casa mi indicò dalla finestra il cassonetto dove i clan avevano fatto sistemare il tritolo sufficiente a farlo saltare in aria insieme a tutta la famiglia. Dopo quell’esperienza lo rividi in un bar nei pressi della Cassazione, dove era stato assegnato nel ruolo di addetto al «Massimario», l’ufficio in cui si selezionano e si antologizzano le sentenze a uso giuridico. Tornerà in quell’ufficio in attesa probabilmente di essere assegnato ad altro incarico, per esempio a capo di una procura importante.

Girava con la scorta e mi pareva di percepire in lui una nota di amarezza. Studioso di diritto, puntiglioso, preparatissimo, ambiva però a qualcosa di più operativo. Il governo Renzi gliene diede la possibilità mettendolo a capo dell’Agenzia anticorruzione, lui che si era formato ammirando il lavoro dei magistrati di Mani Pulite. Ha sempre svolto il suo mestiere con imparzialità, indipendenza e saggezza, senza mai uscire dalle righe. Si era parlato di lui come candidato a sindaco di Napoli per il Pd, ruolo che declinò. La magistratura vive una fase difficile, ha scritto Cantone, «che mi impedisce di restare spettatore passivo». La motivazione del suo rientro in magistratura rende visibile la sofferenza del Terzo Potere della Repubblica, sempre più squassato da scandali, scontri con la politica, polemiche di ogni genere e da una lentezza che ormai contribuisce a paralizzare il Paese. Non solo sul piano civile ma anche (e soprattutto) sul piano penale.

Un esempio per tutti. Come è stato possibile che Mannino abbia ottenuto giustizia e sia stato scagionato dalle accuse di connivenza con la mafia dopo 25, dicasi 25 anni di inchieste e processi? Quanto all’Autorità anticorruzione, «istituita sull’onda di scandali ed emergenze», scrive il magistrato, ora «è un patrimonio per il Paese». Il che non ha impedito alla corruzione di continuare a infestare questo Paese, a 27 anni dallo scoppio di Tangentopoli. Una malattia endemica che l’Italia fatica a debellare, al pari della mafia. Certo, come scrive Cantone, l’Italia ha fatto grandi passi avanti nella prevenzione delle mazzette, ma molto resta da fare: il nostro Paese resta ancora al 57esimo posto nei Paesi più corrotti del mondo e al primo in Europa. Resta la polemica, sollevata dal ministro Bongiorno, sull’eccessiva regolamentazione elaborata dall’Agenzia, a suo giudizio troppo cavillosa: «Se per prevenire tutto blocchiamo tutto, non si fa niente». Colpisce un po’ anche il sostanziale silenzio dei Cinque Stelle, che della lotta alla corruzione hanno sempre fatto una delle loro principali bandiere. Ma un’Agenzia, per quanto gestita al meglio, non può bloccare la corruzione in Italia. Il malaffare parte da lontano e affonda le sue radici in un malcostume culturale di cui non ci siamo ancora liberati.

© RIPRODUZIONE RISERVATA