Caso Siri: Lega e 5 Stelle alla rottura,
ma il governo per ora resta al suo posto

Oggi si consumerà la rottura politica tra la Lega e il Movimento Cinque Stelle. Non per questo cadrà il governo giallo-verde presieduto da Giuseppe Conte. Questa mattina i leghisti e i grillini in Consiglio dei ministri voteranno sul sottosegretario Armando Siri, indagato in un caso di corruzione, e mentre gli uni si opporranno alle dimissioni del loro compagno di partito, gli altri – che sono la maggioranza – diranno invece sì alla defenestrazione. E così Siri, al quale il ministro Toninelli ha già ritirato le deleghe, uscirà dalla compagine governativa. Ma non per questo i due partiti tireranno le conclusioni ultime di una spaccatura tanto grave: il governo non cadrà.

O meglio: non cadrà prima delle elezioni europee del 26 di questo mese, poi si vedrà. I leader e i loro sodali si sgolano ad ogni intervista per ripetere che «andremo avanti per altri quattro anni», che «il governo è al sicuro», e che «ci sono tante cose da fare, non ci fermeremo per questo» ma come vuole la tradizione più si ripetono queste cose, più vuol dire che la crisi è imminente. Nessuno però se ne vuole assumere la responsabilità, anzi il tentativo è di lasciare, come si dice, il cerino in mano all’altro e usare gli argomenti più insidiosi per l’avversario.

«La Lega si impunta su un caso di corruzione, non credo che i suoi elettori capiranno» sibila Di Maio. «Il Movimento Cinque Stelle insiste per fare i processi sui giornali e in piazza, in un Paese civile i processi si fanno in tribunale» replica a brutto muso Salvini. Il quale tuttavia sa che in questa vicenda a lui tocca il ruolo più scomodo: difendere un politico indagato, e per di più in un caso in cui addirittura viene evocata la parola mafia, non è mai un buon viatico elettorale, e infatti qualche conseguenza la si comincia a vedere (in negativo) nei sondaggi. Eppure Salvini tiene duro, non molla il suo compagno di strada, l’inventore della flat tax all’italiana, il capo della sua scuola di formazione politica, un giovanotto di grandi speranze. Che verrà sacrificato, certo, ma non per volontà della Lega semmai per il giustizialismo grillino. Di Maio sta usando molto abilmente la circostanza per recuperare terreno (anche in questo caso i sondaggi testimoniano un certo movimento, questa volta in positivo), indebolire l’avversario e recuperare l’identità delle origini oscurata dai tanti compromessi imposti dall’azione di governo (compreso il voto contro l’autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini sul caso Diciotti, una violazione palese dei principi grillini).

Sta di fatto che Salvini, parlando del suo complicato rapporto di governo, non nasconde che il caso Siri è solo uno dei tanti argomenti sui quali non c’è accordo con Di Maio. E l’elenco è noto: le grandi opere, le tasse, l’autonomia delle Regioni… tutti cantieri fermi per i veti contrapposti e le divergenze troppo forti. Quando ammette questa difficoltà, Salvini non va fino in fondo, non tira la conseguenza più logica e con uno spericolato testacoda conclude dicendo: «In ogni caso si va avanti». Ma si vede che ormai non ci crede nemmeno lui. Benché rimanere al governo avendo raddoppiato i voti del 2018 con un alleato che li ha dimezzati sia la cosa più comoda per il leader della Lega, tuttavia il terremoto che si originerà dalle elezioni di fine maggio sarà così forte che le cose precipiteranno da sole. Verso dove nessuno lo sa. Anche perché di fronte a noi c’è un settembre da paura: la Commissione europea proprio ieri ci ha avvisati che presto serviranno molti miliardi per coprire i buchi nei conti pubblici, e qualcuno si dovrà prendere la responsabilità di chiederli agli italiani.

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