Chi paga di più
i sacrifici
ma il nemico
è la pandemia

«Morire di Covid o morire di fame?». «Tu ci chiudi, tu ci ristori. Tu non ci ristori, noi riapriamo». «Lo Stato ci ha abbandonato». Tra disperazione e qualche piagnisteo ieri è esplosa la rabbia di coloro che stanno pagando più duramente la pandemia dal punto di vista economico: tra questi gli ambulanti, i mercatali, i ristoratori, i baristi, gli istruttori delle palestre, gli esercenti dei negozi di abbigliamento. Tutti all’insegna di una rivendicazione molto semplice in questo genere di circostanze, quasi inevitabile in caso di crisi, quando le coperte si restringono: «Perché io e non l’altro?». Perché restano aperti i negozi di abbigliamento per bambini e non quelli per adulti? Perché gli edicolanti e non i bar? E ancora: perché noi siamo chiusi e i contagi non scendono, senza pensare che forse se rimanessero aperti anche i bar i contagi sarebbero ancora maggiori di quelli che sono in questa sorta di terribile pioggia di varianti che si abbatte sul Paese e riempie le terapie intensive.

Ma nell’elenco di questo anello debole, il più esposto alle conseguenze economiche del Covid, si potrebbero aggiungere tante altre categorie, come i lavoratori dello spettacolo, gli istruttori delle palestre, gli addetti del turismo. Le proteste, alimentate dai soliti gruppi populisti e neofascisti, sempre pronti a soffiare sul fuoco dei malumori sociali, sono esplose da Milano a Napoli, da Bari a Roma, persino sull’autostrada A1, fino ad arrivare a Montecitorio dove ci sono stati scontri e lanci di fumogeni e bottiglie (un funzionario della Polizia è rimasto ferito), con qualche arruffapopolo ad alimentare la tensione.

C’era anche gente senza mascherina ma non si tratta di negazionisti: si tratta di disperati, gente che ha dovuto chiudere la propria attività sulle parole rassicuranti, che però non si potevano mantenere, dell’allora ministro Gualtieri («nessuno perderà il suo lavoro o la sua attività») e ora si ritrova sul lastrico. Non è certo la prima volta che assistiamo all’esplosione di questa rabbia. Il combustibile è sempre più a portata di mano. Ieri l’Istat ha diffuso gli ultimi dati sulla disoccupazione: in un anno si sono persi 945 mila posti di lavoro e a giugno scadono i termini del blocco dei licenziamenti e l’erogazione della cassa integrazione Covid.

Ieri, ancora una volta, abbiamo assistito a delle avvisaglie. Ma la domanda che si pongono tutti, e per primo il premier Mario Draghi, è «per quanto tempo ancora il Paese resisterà?». Fino a quando si riusciranno a tenere a freno la rabbia e le tensioni di tanta gente che ormai non ce la fa più? Siamo su una polveriera.

Tutto questo spiega il nervosismo di Draghi nella campagna a rilento dei vaccini e la sua severità nei confronti delle industrie farmaceutiche che non assolvono i loro impegni. Perché non basta assicurare i ristori (che evidentemente non sono adeguati alla situazione) e la cassa integrazione. L’unico modo per superare la crisi economica provocata dalla pandemia è debellare prima la pandemia. La crisi in questi mesi da dimenticare non è per tutti: ci sono settori, come la logistica o delle apparecchiature mediche e di protezione che stanno andando a gonfie vele.

È necessario che lo Stato sia in grado di redistribuire il peso dei sacrifici, per esempio agendo sugli sgravi fiscali (ieri in piazza qualcuno chiedeva a gran voce un «anno bianco» delle tasse, ma nei settori in difficoltà le tasse sono state sospese, non cancellate). Inutile aggiungere che l’apertura indiscriminata, come quella che vorrebbe chi è sceso in piazza, è solo velleitaria quando si registrano ogni giorni centinaia di vittime (solo ieri 421). In questo anno funesto, complice l’abitudine e la disperazione, abbiamo perso il senso della vita e della morte. Eppure come qualcuno ha detto, è come se cadessero due Boeing 777 al giorno.

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