
L'Editoriale
Lunedì 28 Luglio 2025
Cina, calo delle nascite. Perché ci riguarda
MONDO. Una tendenza globale che coinvolge la grande potenza asiatica. E anche l’Europa ne paga il prezzo.
Nel 2020, negli asili cinesi, i bambini iscritti erano 48 milioni. L’anno scorso il loro numero è sceso a 36 milioni. Un quarto in meno nell’arco di cinque anni, nota in prima pagina il Financial Times, il principale quotidiano finanziario europeo. Sempre in Cina, nel 2021, gli asili attivi erano 295mila, oggi sono poco più di 253mila, hanno quindi chiuso i battenti oltre 41mila strutture per l’infanzia. Il motivo è semplice. In quello che eravamo abituati a considerare come il Paese più popoloso del mondo, e che nel 2023 è stato in realtà sorpassato dall’India per il numero di abitanti, le nascite stanno diminuendo a ritmi più rapidi di quelli europei: nel 2017 nella Repubblica popolare cinese nascevano infatti 17,9 milioni di bambini (quando in Italia i neonati erano 0,45 milioni, per avere un termine di paragone), l’anno scorso ne sono nati 9,3 milioni, cioè poco più della metà.
Tendenza globale
Dati del genere meriterebbero attenzione per tanti motivi, ma ne scegliamo almeno due. Il primo è perché testimoniano una tendenza globale che, se si fa eccezione per alcuni Paesi africani, farà ricordare questi nostri decenni come quelli dell’«invecchiamento globale» e non invece - come si iniziò a prevedere alla fine degli anni Sessanta e come qualcuno ancora si attarda a credere - come quelli della «bomba demografica». Chi ancora si preoccupa del sovrappopolamento, ricorrendo a toni apocalittici e prospettando soluzioni altrettanto temibili, è fuori strada. I numeri e i dati reali vanno in tutt’altra direzione, come dimostra quanto accade nel secondo Paese più popoloso del pianeta con i suoi 1,4 miliardi di abitanti (circa il 18% della popolazione mondiale).
«Non un mercato normale»
Il secondo tema su cui riflettere è che squilibri demografici di una tale portata non possono non condizionare quanto accade nella seconda economia più grande del pianeta, in quella che è considerata - a ragione - «la fabbrica del mondo». Pechino, intendiamoci, a brevissimo termine non vede minacciato il suo status di potenza economica. Ancora negli scorsi giorni uno più capaci imprenditori contemporanei, Jensen Huang, il Ceo del colosso dei microchip Nvidia, ha spiegato che «la Cina non è uno dei tanti mercati, la Cina è un mercato unico particolare. (…) Un mercato allo stesso tempo dinamico e incredibilmente innovativo, con ingegneri brillanti. Ha una delle più grandi popolazioni mondiali di informatici. L’unica altra popolazione di taglia simile si trova negli Stati Uniti. E anche la popolazione di consumatori finali è estremamente numerosa. Questo non è un mercato normale».
Tutto vero, come ben sanno migliaia di imprenditori italiani che sono riusciti a produrre beni o offrire servizi destinati alla Repubblica popolare cinese, alcuni aprendo attività dentro i confini dell’ex Impero celeste. Tuttavia una simile potenza di fuoco economica, anche per ragioni demografiche, sta diventando un fattore di destabilizzazione per tutto il mondo, come dimostra la reazione (scomposta ma motivata) della nuova Amministrazione Trump che peraltro, nel suo rapporto muscolare con Pechino, non si discosta poi troppo con quanto fatto da precedenti Amministrazioni anche a guida democratica.
Sempre più economisti, a partire da quelli della Banca Mondiale, sostengono - come ha sintetizzato di recente l’agenzia americana «Ap» - che «sono necessari cambiamenti di fondo per spingere i consumi interni e contenere la sovraccapacità industriale» cinese. Un modo in cui il Partito Comunista al potere potrebbe farlo consiste nell’ampliare la rete di welfare pubblico, così da consentire a una popolazione - che all’improvviso si è scoperta molto più anziana e fragile di quanto si ritenesse - di spendere, invece che di risparmiare tutto il possibile per cure mediche e pensioni. Per il momento, nonostante ripetuti annunci, le priorità della leadership di Pechino sembrano altre. E anche noi europei ne stiamo pagando il prezzo.
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