Cina-Usa, le carte
ancora da scoprire

Gli incontri tra i grandi leader quasi mai servono a risolvere i problemi, semmai a chiarire su che cosa si vuole litigare e su che cosa si può andare d’accordo. È stato così tra Joe Biden e Vladimir Putin, e la cosa si è ripetuta ieri nell’incontro via Internet tra il presidente Usa e quello cinese Xi Jinping. E sempre per la serie delle verità poco gradevoli ma non meno solide, quando si parla di valori e ideali si litiga, quando si parla di interessi e di quattrini spesso si trova un’intesa. Il summit vis-à-vis in Svizzera tra Biden e Putin ha prodotto scarsi risultati proprio perché le relazioni economiche tra Russia e Stati Uniti sono ridottissime e l’unico vero fronte in comune, quello del gas e del petrolio, non consente grandi intese vista la natura dell’economia russa, che resta in sostanza dipendente dall’esportazione di quelle risorse. Biden e Xi Jinping hanno fatto le debite mosse di apertura sui temi «alti». Il presidente Usa ricordando le repressioni a Hong Kong, nel Tibet e nello Xinyang della minoranza musulmana uigura, quello della Cina ammonendo che Taiwan è Cina e che negli affari cinesi nessuno può mettere il becco. E non si è fatto alcun passo avanti.

Però le relazioni economiche tra Cina e Usa sono molto sviluppate e complesse, quindi sulla base dei comuni interessi il discorso tra i due leader ha preso un andamento più fattivo e concreto. Le prove generali si erano avute alla Cop26 di Glasgow, con un accordo bilaterale sulla riduzione delle emissioni di carbone e di metano in nome di un’emergenza ambientale che mette a rischio anche il buon funzionamento delle economie. Ieri, parlandosi a distanza, Biden e Xi Jinping hanno preso atto dell’inutilità delle guerre commerciali (Biden, si badi bene, ha confermato tutti i dazi anti-cinesi a suo tempo decisi da Trump) che da anni dividono i due Paesi.

La Cina non può rinunciare al mercato americano: nel settembre scorso Pechino, nella bilancia importazioni-esportazioni con gli Usa, ha realizzato un surplus di 42 miliardi di dollari. Ma nemmeno gli Usa possono permettersi troppa conflittualità. Il 50% delle grandi imprese americane lavora e guadagna in Cina. Non a caso già all’inizio del 2021, a Washington, organizzazioni come la Camera di Commercio, la Federazione Nazionale dei venditori al dettaglio e lo Us-China Business Council si erano mobilitate perché fosse posto un freno agli umori più anticinesi che albergavano nella pancia del Congresso. E dietro di loro erano schierati anche colossi come Amazon, Nike e Jp Morgan Chase. Nello stesso tempo tutti i dati facevano notare che la guerra commerciale non aveva prodotto né vinti né vincitori.

Anzi, per certi versi era come se non ci fosse nemmeno stata. Un sondaggio svolto dalla Camera di Commercio americana a Shanghai su 338 aziende Usa operanti in Cina aveva scoperto che il 59,5% di tali aziende nel 2019 aveva aumentato gli investimenti sul mercato cinese e che l’82,2% prevedeva di aumentare i ricavi in questo 2021. Pochissime, invece, le aziende che pensavano di ricollocarsi in altri Paesi dell’Asia.

Ora comincia la fase snervante delle trattative vere, del dare e dell’avere. Gli Usa lamentano, spesso con ragione, i lacci e lacciuoli che le leggi cinesi impongono agli operatori stranieri, il dumping monetario, i furti di brevetti, gli aiuti di Stato che alterano le leggi sulla libera concorrenza. La Cina sarà disposta a rinunciare ad alcuni di questi vantaggi? E in cambio di che cosa? Meno ostacoli al progetto della nuova Via della Seta? Più collaborazione nel settore tecnologico, dal G5 Huawei in giù? Le carte sono ancora coperte ma qualcuno, prima o poi, dovrà calare la sua.

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